Bologna, 12 maggio 2018 - "Si va in manicomio per imparare a morire", scriveva la poetessa Alda Merini. Esattamente quarant’anni fa abbiamo archiviato quella parola, manicomio. Era il 13 maggio 1978. L’anno della 180 o legge Basaglia, che prese il nome da Franco, lo psichiatra della rivoluzione che chiuse gli "ospedali dei matti". Ma oggi, a che punto siamo? Per farcene un’idea dobbiamo incrociare una previsione e un’analisi. Tenere a mente che nelle stime dell’Oms – l’organizzazione mondiale della sanità -, in dieci anni le malattie mentali supereranno quelle cardiovascolari e diventeranno il nostro primo problema (a livello planetario). Subito dopo, conviene riflettere sulla sintesi di Claudio Mencacci, direttore del dipartimento di neuroscienze e salute mentale del Fatebenefratelli-Sacco di Milano. "Con grandi principi, ma senza risorse, è difficile fare la storia".
Una frase educata ma che va al dunque. Il professore elenca: "Dobbiamo mettere nelle condizioni medici e operatori di poter assistere, curare, gestire quelli che potremmo considerare i pazienti più fragili in assoluto. E le loro famiglie, che vivono condizioni di vita difficilissime, spesso drammatiche. Di paura e di solitudine. Senza parlare del problema sicurezza, nelle zone di pronto soccorso e nei dipartimenti di salute mentale, che vedono in costante pericolo gli operatori". La Società italiana di psichiatria ha fatto i conti: in questi 40 anni senza manicomi sono stati curati 20 milioni di italiani. "Sono 800mila i pazienti che si rivolgono ogni anno ai dipartimenti di salute mentale - chiarisce il presidente, Bernardo Carpiniello -. Ma nello stesso periodo sono almeno sei milioni, questa è la stima, ad avere problemi".
L’enorme divario si spiega anche perché tanti scelgono la strada degli studi privati (per vergogna?). "Se dovessero rivolgersi ai servizi pubblici anche solo due-tre milioni di persone, saremmo al collasso – ammette il presidente, che è anche professore e direttore del dipartimento di Psichiatria all'università di Cagliari –. Già oggi facciamo una gran fatica". Ora che "finalmente c’è un sistema pubblico che si occupa in modo ampio di tutta la gamma dei problemi mentali: ansia, disturbi dell'umore e della personalità, psicosi schizofreniche... Prima tutto questo era gestito solo dai privati". L’Italia dei servizi psichiatrici, ricorda Carpiniello, deve fare i conti con una situazione a macchia di leopardo. Gli operatori sono 31mila, numero che comprende tutti, dai medici agli amministrativi. Da qui si arriva a "uno psichiatra ogni 250-500 pazienti, a seconda del territorio. La banda di oscillazione è questa", è la statistica del presidente Sip. Ma quali sono le malattie emergenti? "I disturbi dell’umore – non ha dubbi –. Ne soffre quasi un terzo dei nostri assistiti". Forme gravi di depressione, aggiunge Mencacci, affliggono "4 milioni di persone". E torna a insistere: "Il tema delle risorse è fondamentale. Troppo scarse per fare opera di prevenzione e riconoscimento precoce, visto che oltre il 70% delle patologie compaiono nell’adolescenza. In Italia il finanziamento medio per la psichiatria arriva al 3,5% del fondo sanitario nazionale, noi abbiamo chiesto almeno il 6%. Se ci guardiamo attorno scopriamo che le altre nazioni europee sono attorno al 10%".