Roma, via Mario Fani, 9.02 del mattino, quarantacinque anni fa. Sul sedile posteriore della Fiat 130 dalla quale le Brigate rosse, dopo aver sterminato la scorta, avevano appena prelevato il presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro, diretto a Montecitorio per il voto di fiducia al governo Andreotti, il primo con i comunisti in maggioranza, resta una borsa di pelle. Dentro, tesi di laurea degli studenti. "E anche l’originale di un articolo destinato al 'Giorno'", dice Gero Grassi, ex deputato Pd e componente dell’ultima commissione d’inchiesta. Un articolo che il quotidiano, con cui l’ex presidente del consiglio collaborò dal gennaio 1977 al rapimento, non pubblicò mai. Un testo in cui Moro prende le distanze dalle pressioni politiche dirette degli Stati Uniti contro la nascita di quel governo con il Pci, al cui voto di fiducia lo statista non arriverà mai a partecipare. Toni inusitatamente duri, che la direzione di allora rifiutò. A guidare il quotidiano, proprietà pubblica dell’Eni, era Gaetano Afeltra, che volle Moro come firma di prestigio. Troppo pesante però, per un giornale libero, ma di orbita governativa, una presa di posizione così netta, dura, contro l’alleato americano. E Afeltra disse no. L’articolo, previsto per il 6 gennaio, restò nella borsa di Moro. Il rapporto col Giorno non si interruppe, però, con il rifiuto. Oggi, a 45 anni dalla tragedia di Moro e della sua scorta, la parentesi si chiude con la pubblicazione di quell’articolo, appena ritrovato.
I giudizi espressi nei giorni scorsi da parte americana sugli sviluppi della politica italiana e la possibilità di accesso dei comunisti al governo del nostro Paese hanno destato vivaci polemiche ed introdotto qualche nuova ragione di tensione. Conviene però essere molto obiettivi nel guardare all’insieme di questa vicenda. È comprensibile e giusto, si osserva, che un Paese indichi a un altro, amico e alleato, proprio in considerazione del particolare vincolo che li unisce, i pericoli che vede emergere all’orizzonte e le conseguenze che, in determinate circostanze, possono verificarsi. Queste valutazioni, in quanto riguardino l’opinione pubblica in generale e si esprimano per canali appropriati, sono ineccepibili (...).
Le cose sono un po’ diverse, se le valutazioni siano formulate in sede di Governo (o dietro sigle trasparenti) e fatte conoscere senza vincolo di discrezione. In tale caso fattori esterni incidono in un dibattito in corso nelle sedi competenti e influenzano o almeno c’è sospetto che influenzino le decisioni. (...) Siffatti giudizi dunque potrebbero turbare e impacciare i sinceri amici dell’America i quali sono tanti, forse più che non si pensi, nel nostro Paese. Di più, il rendere pubblici dei punti di vista, perché se ne tenga conto, non solo genera disagio, ma obiettivamente limita la libertà di manovra politica. Certo l’autonomia di decisione resta, nella complessità delle sue motivazioni, perché essa è a un tempo un diritto e un dovere (...).
Si può immaginare allora che, per un canale improprio, il destinatario sia, più che il governo o l’opinione pubblica del Paese amico, uno stato terzo nel quadro di equilibri di potenza, ovviamente non solo militari, ma politici, da preservare a livello mondiale. E questa è una cosa che sarebbe da ingenui non comprendere, prima perché è un dato di realtà (e fuori dalla realtà non si fa politica), poi perché un assetto bilanciato è un fattore di pace, certo non sufficiente, ma essenziale.
Trattandosi di un dato di tale natura, non si può certo dunque ignorarlo, anche se è fuori discussione un qualsiasi intervento di forza (...). Può determinarsi però un’atmosfera internazionale più pericolosa. Il Partito comunista italiano ha percepito con la consueta lucidità il carattere delicato di questo nodo e vi ha corrisposto con una scelta, quella di accettare la Nato, frutto più che di vocazione, di rigoroso realismo politico in uno spirito di lealtà del quale non vogliamo dubitare. È evidente peraltro che la situazione ha aspetti problematici e che dubbi e preoccupazioni esistono in coloro, i quali indubbiamente contano nel generale contesto nel quale siamo inseriti. Certo un’esperienza, qual è quella che i comunisti italiani chiedono di fare (i francesi sembrano più lontani dal desiderarlo davvero), pone per tutti degli interrogativi e trova perciò risonanza anche all’Est (...).
Non tocca a noi però fare il conto dei dati favorevoli o contrari. A noi tocca decidere, sulla base della nostra conoscenza, in piena autonomia. Per questo riscontriamo delle avversità non trascurabili ed escludiamo una sorta di generale alleanza politica con il Partito comunista, della quale mancano le condizioni. Ma vi è uno spazio nel quale, guardando agli interessi del Paese, in una situazione che è indiscutibilmente eccezionale, in presenza del venir meno dei legami tradizionali dei partiti, è possibile raggiungere una positiva concordia sui programmi e un grado di intesa tra le forze politiche e sociali, i quali consentano, con una soluzione equilibrata e adatta al momento, di far fronte all’emergenza e di sperimentare un costruttivo rapporto tra partiti molto differenziati, che la realtà della situazione obbliga a non ignorarsi e a non paralizzarsi, provocando con ciò la paralisi, e forse peggio, dell’Italia.
Su questa leale trattativa, che includa strumenti giuridici atti a rendere non più necessari taluni referendum, si gioca l’esito della crisi con la possibilità di scongiurare eventi traumatici. Vale la pena di coglierne il pieno significato politico e di fare appello alla prudenza, all’intelligenza, allo spirito aperto di coloro sui quali ricadono le massime responsabilità.