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L’America spaccata in due Trump sfida giudici e democratici E nei sondaggi continua a volare
di Cesare De Carlo
Gli americani non conoscono la storia. Così David Kertzer, storico, premio Pulitzer, italianista alla Brown University. Giusto. Spesso però non conoscono nemmeno la cronaca. Nel senso che se così non fosse i magistrati di Manhattan, democratici al 99 per cento, avrebbero evitato di incorrere negli errori dei colleghi milanesi, quando indagavano, processavano, condannavano Silvio Berlusconi. Si sarebbero dovuti ricordare che l’impressione della persecuzione giudiziaria, soprattutto per motivi frivoli, finisce per rianimare e non affossare la popolarità dei leader politici. Nelle democrazie ovviamente. È quello che sta accadendo a Donald Trump. Ed è quello che prima di lui accadde a Berlusconi: ad ogni rinvio a giudizio, soprattutto per le festine scollacciate di Arcore, il suo gradimento aumentava.
Gli ultimi sondaggi vedono Trump portare a 30 punti il vantaggio su Ron DeSantis, governatore della Florida, in lizza per la nomination repubblicana. Si voterà nel novembre del prossimo anno.
Altro dato significativo: nell’ultima settimana prima del suo ingresso ieri nel tribunale di Manhattan nel cuore di New York, l’ex presidente ha raccolto sette milioni di dollari. Continuando con questo ritmo avrà i fondi necessari per le due campagne elettorali del prossimo anno: quella della nomination repubblicana e quella per riprendersi la presidenza. Oltretutto Trump potrebbe mantenere la candidatura anche se finisse in prigione. È quello che paradossalmente si augura Joe Biden. Un Trump detenuto sarebbe il miglior avversario possibile. È già accaduto nella storia americana e la cosa rientra nella giurisprudenza. Era il 1920 e il candidato si chiamava Eugene V. Debs. Era un socialista. Predicava contro l’entrata degli Stati Uniti nella prima guerra mondiale. Reato d’opinione, dunque, nella nazione che si era affrancata dal colonialismo lottando contro l’assolutismo di re Giorgio d’Inghilterra.
Anche se l’arresto di Trump da simbolico diventasse effettivo, ci sarebbe un precedente. Era il 1872. Il presidente Ulysses Grant fu arrestato da un poliziotto per eccesso di velocità. Aveva lanciato al galoppo il suo cavallo nelle strade della capitale. Ma un primato Trump l’ha. È il primo presidente o ex presidente a dover rispondere penalmente. Ed è per questo motivo che il suo rinvio a giudizio acquista una forte rilevanza politica. La quasi totalità dell’elettorato repubblicano e anche frazioni di quello democratico moderato ritengono che la nuova grana giudiziaria, in aggiunta alle dozzine ancora pendenti o in qualche modo superate, sia politicamente motivata.
Qualcuno ricorda la differenza di trattamento riservato ai due Clinton, a Bill per l’intraprendente Monica che poi ricattò il suo maturo spasimante, e alla disinvolta Hillary che mischiava affari di Stato e affari personali e che non si curava di trattarne nelle sue e-mail personali incorrendo in rischi per la sicurezza nazionale. L’uno e l’altra se la cavarono con multe, risarcimenti, riprovazioni. Non subirono mai l’onta di vedersi trascinati davanti a una corte di giustizia. In altri termini, l’America non importa se repubblicana o democratica si ritrova profondamente divisa. Da una parte si parla di dittatura strisciante della sinistra: non più solo per la Cancel Culture o la Woke Culture o il superamento delle convenzioni sociali e familiari. Dall’altra si stigmatizza l’ansia di rivincita del presidente che nel gennaio 2021 in quattro ore scellerate bruciò il bilancio, niente affatto negativo, di quattro anni.
In effetti quel che stupisce è che Trump non finisca davanti al giudice per non avere trattenuto i suoi sostenitori dall’assalto al Capitol Hill, il tempio della democrazia americana, ma per avere comprato il silenzio di una prostituta. Anche questo particolare contribuisce a fare di quello di ieri – come ha detto il senatore Marco Rubio, Florida – il "giorno più nero" della democrazia americana.
(cesaredecarlocs.com)