Sembra, in effetti, un’insensata fiera delle vanità. Nel foyer, “la tonnara” nel gergo degli habitué, circolano abiti da gran sera, gioielli favolosi, botulini imbarazzanti, soliti noti, ignoti con ambizioni mondane, gloriosi reperti assiro-milanesi, e molti scongiuri perché quest’anno l’opera scelta porta notoriamente scalogna, non è vero ma ci credo, e infatti non la nomino neppure.
E poi politici, questurini, Milly Carlucci in versione musicologa, nani, ballerine, giornalisti che si mettono all’opera per la prima volta con conseguente asinerie (“la” soprano, un classico), esperti improvvisati e improvvisazioni di esperti cui mettono un microfono davanti alla bocca chiedendo: "Le piace?" prima ancora che si alzi il sipario. Un Barnum, un delirio, "une folie organisée et complète", per dirla con Stendhal che conosceva i suoi polli italiani, quindi li adorava. Il tutto in diretta tivù o, peggio, social. E nel day after, articoloni sui giornali, l’unico giorno dell’anno con il melodramma, inteso come spettacolo, in prima pagina. L’impressione, certo, è quella di una società che replica riti di cui non comprende più la ragion d’essere.
Eppure la prima della Scala, sabato prossimo, Sant’Ambroeus (tradizione, per inciso, inventata, per la precisione nel 1951 ai Vespri siciliani con Maria Callas ancora grassa ma già immensa, le stagioni d’opera in Italia in realtà debuttavano il 26 dicembre), e le altre inaugurazioni dei teatri, da Nord a Sud, un significato l’hanno ancora. Beninteso, fatte salve le inevitabili differenze cittadine: prima relativamente sobria a Milano, tutto un Armani, super cafonal a Roma, ultra chic a Napoli, dove certi smoking sembrano pittati addosso a chi li indossa, discretissima e leggermente lugubre a Torino, patriottica a Trieste dove il pubblico canta l’Inno, aristocratica a Palermo con tutte le duchesse e principesse e gattoparde riesumate per l’occasione, e così via.
Ma, appunto, se c’è qualcosa che unisce questo Paese disunito da tutto il resto è l’opera lirica, geniale invenzione italiana che rimane uno dei nostri prodotti d’esportazione di maggior successo globale, come la pizza, la Ferrari, la moda, il Rinascimento, la mafia, il design, il parmigiano. Poi si può discutere se gli italiani abbiano concepito il melodramma perché sono melodrammatici o se siano melodrammatici per colpa del melodramma, dibattito infinito che ricorda molto quello se sia nato prima l’uovo o la gallina. Però questa gallina dalle uova d’oro che da quattro secoli dispensa emozioni al mondo ha dato agli italiani una passione comune, lo strumento per esprimerla, e perfino la coscienza di essere comunità, popolo, Nazione.
La prima della Scala sarà pure un po’ grottesca; ridicola, no. Ricelebra una sorta di matrimonio mistico fra gli italiani e il loro teatro, officiando quei capolavori "sempiterne pomate curative delle piaghe nazionali", come li chiamava Tomasi di Lampedusa che, facendo dell’ironia, enunciava una grande verità. E davvero è un rarissimo, forse unico caso di utopia realizzata. È uno spettacolo inventato da un’élite di intellettuali raffinatissimi, su forme musicali spesso complesse, dove ci si esprime in un italiano letterario che nessuno ha mai parlato e molti non capiscono, e che richiede l’accettazione da parte di chi lo fa e di chi ci va di una convenzione assurda, che si comunichi cantando e non parlando.
Ma questa meraviglia insensata e improbabile, quest’arte così difficile ed elaborata, costosa e irrealistica in Italia ha sfondato ogni barriera sociale o culturale, diventando patrimonio di tutti e per tutti. Nazionalpopolare, per citare anche Gramsci che, ormai, mette d’accordo tutti, sinistra e destra. E, a proposito di destra: proprio l’attuale governo nazionalsovranista dovrebbe capire che se c’è qualcosa di identitario, in Italia, è appunto l’opera, quindi regolarsi (e regolarla) di conseguenza.