di Alessandro Farruggia
Il tenente colonnello Gianfranco Paglia è Medaglia d’Oro al Valor Militare. Letteralmente, un eroe. Le sue gesta al Checkpoint Pasta, in Somalia, dove, comandante di plotone, continuò a combattere pur essendo gravemente ferito, gli hanno guadagnato l’ammirazione di tutti. "In questo momento – dice – lo stato d’animo è di totale amarezza. Dopo venti anni siamo tornati al punto di partenza, forse pure peggio perché ora i talebani si sentono invincibili. Gli Stati Uniti e la Nato hanno fatto la stessa figura dei russi".
Visto come è finita, quei 53 morti italiani hanno avuto un senso?
"Questa è una domanda che non mi sono mai posto, neppure in Somalia. Sarebbe troppo semplice dire che non è servito. Noi siamo militari e abbiamo giurato fedeltà alla Patria e alla Repubblica e portiamo avanti quel giuramento. Le conseguenze fanno parte di quel giuramento. Facciamo quel che ci viene chiesto. Se c’è da sparare, spariamo secondo le regole d’ingaggio decise dal governo, se c’è da fare un intervento umanitario, siamo pronti. Il soldato italiano sa fare il suo lavoro a 360 gradi".
È stato un errore intervenire in Afghanistan?
"Le condizioni erano molto difficili, forse il finale era già scritto, ma è stato giusto provarci".
Non è la prima volta che l’Occidente sbaglia un intervento internazionale. Almeno l’addio poteva essere diverso?
"Doveva. Non dico che saremmo dovuti rimanere in eterno, ma gli americani hanno peccato di superficialità nel credere che lo stato afghano e le forze di sicurezza afghane avrebbero retto da sole. E comunque è il modo nel quale abbiamo abbandonato il Paese che non va bene, non si può all’improvviso piantare tutto così. Si è rivisto quanto abbiamo vissuto in Somalia nel 1995. Noi ce ne andiamo, i locali si arrangino. Il ministro Guerini, gliene devo dare atto, ha provato a spiegare che l’Afghanistan non poteva essere abbandonato in quel modo, che andava aiutato e supportato in questa uscita. Ma gli americani ci hanno messo di fronte al fatto compiuto, forse immaginavano che l’esercito afghano facesse l’esercito...".
E invece s’è sfaldato. Da militare, perché le truppe di Kabul si arrendono senza combattere? In un soldato, dove nascono le motivazioni per fare il proprio dovere?
"Il mio pensiero del tutto personale è che sentendosi abbandonati hanno pensato alla loro vita. Vede, le motivazioni per difendere il proprio Paese non si possono esportare o insegnare. O ce le hai o non ce le hai. Agli afghani è evidentemente mancata una identificazione con lo Stato afghano, con la loro patria. L’Occidente ci ha pure provato a creare uno Stato credibile in Afghanistan, ma purtroppo la democrazia non la puoi esportare. E senza uno Stato credibile i militari afghani si sono sentiti soli. Questo premesso, io rispetto tutti, rispetto pure quello che mi ha sparato, però...".
Però i soldati afghani hanno fatto un po’ poco.
"Più che un po’. Se gli afghani si sentono abbandonati da noi, noi possiamo dire lo stesso dall’esercito afghano. Si è cercato in tutti i modi di supportarlo, con materiali e con anni d’addestramento ma al momento della verità non ha combattuto. È questo che fa male".
Lei è stato all’ammainabandiera ad Herat, come era l’umore dei suoi colleghi?
"Sono professionisti che hanno la capacità di gestire ogni tipo di difficoltà. Noi come forza armata italiana non credo che abbiamo commesso errori. Abbiamo sempre fatto quel che ci era chiesto e non per niente abbiamo perso 53 uomini. Herat era tornata a vivere. Ma da soli non si va da nessuna parte".