Baldelli è qualcosa che scuote l’animo di tutti noi in queste recenti storie di maternità (diciamo pure di genitorialità) desiderata o negata. Non solo per l’emotività che suscitano, ma perché riguardano lo stare al mondo di noi tutti. Intendo proprio, per dirla con Bruce Chatwin: Cosa ci faccio qui? Non so quanti di noi abbiano chiesto ai propri genitori: Perché mi hai chiamato? Cosa volevi da me e per me? Sono come mi avevi immaginato? Sono stato una delusione o una soddisfazione? Credo che ogni essere umano attenda, a volte per una vita intera, di sentirsi dire: sono orgoglioso di te. Non importa se da un genitore biologico o adottivo. E, se questa frase non viene, si forma nell’animo una voragine difficile da riempire altrimenti. Come in maniera speculare un genitore si chiede: Sarò stato all’altezza di questo compito? Ho insegnato a essere felice a questo qualcuno che ho chiamato al mondo? Ogni nascita è un mistero insondabile. Un momento prima non c’eravamo e ora eccoci qui, a respirare e gridare ed esigere amore, attenzione, cura. La più complessa e difficile delle imprese, dal cui successo dipende tutto l’andamento della nostra esistenza. Un po’ come quei buchi neri che si formano in cielo dopo l’esplosione di una stella, al centro dei quali sta un campo gravitazionale talmente forte da attrarre e catturare qualsiasi cosa gli si avvicini e la curvatura dello spaziotempo diventa infinita. Non penso che una nascita produca meno energia dell’esplosione di una stella. E allora eccoci qui, a vagare lungo questa curvatura spaziotemporale, finché non arriva una mano ad ancorarci, una voce a rassicurarci. Sono felice che tu sia arrivato. Sono felice che tu mi abbia chiamato. Che tu mi abbia strappato dal vuoto. Che mi illumini il buio. Che tu mi voglia bene.
CronacaLa nascita, un mistero senza fine