Roma, 31 dicembre 2024 – Ci sarà un motivo se Ingmar Bergman nell’iconico "Il settimo sigillo" affida la sorte del cavaliere templare a una partita a scacchi con la morte. "Il regista – spiega Adolivio Capece, giornalista, scrittore e soprattutto scacchista di fama internazionale – fa combattere il destino a un gioco nato come la riproduzione di una piccola battaglia dove il potere mentale può essere più forte di tutto". Capece ha appena pubblicato per Mursia "Imparo gli scacchi", ultimo ma non ultimo dei suoi volumi in cui racconta – e insegna - il gioco che l’ha appassionato fin da bambino.
Quando ha iniziato a giocare?
"Avevo sei anni e a Natale trovai sotto l’albero un solo pacchetto: c’era una scacchiera. Mio zio, che come dico io sapeva muovere i pezzi ma non sapeva giocare, all’inizio mi batteva regolarmente, ma il Natale successivo vinsi finalmente una partita e mi appassionai".
Dove giocava al tempo?
"All’oratorio. C’era un prete che lo faceva. Prima di sapere che esistesse un circolo scacchistico feci un torneo a San Benedetto del Tronto. Avevo 13 anni e mi preparai sull’unico manuale esistente, quello di Chicco Porreca. Arrivai ultimo ma decisi di andare avanti".
E andando avanti sono arrivate tante soddisfazioni, vero?
"Sì, cominciai a prepararmi con sempre più impegno fino ad arrivare ai campionati del mondo a squadre giovanili di Skoplje. Poi scoprii che era meraviglioso raccontarlo quel mondo, e quando nel 1972 La Stampa mi chiese di spiegare a tutti la sfida del secolo tra Fischer e Spassky a Reykjavik mi resi conto quanto fosse bello divulgare la mia passione".
Ma come spiega nei suoi libri ciò che è necessario per giocare a scacchi?
"Lo racconto in modo molto semplice che tutti possano capire. Innanzitutto va superato quel gradino che c’è fra muovere i pezzi, come faceva mio zio, e sapere giocare...".
Ci dica come si salta questo gradino allora…
"Con la mente che deve essere portata a elaborare una strategia. Certo, un buon manuale è necessario (e sorride, ndr), ma bisogna applicarsi e giocare, giocare, giocare; si deve studiare, ma soprattutto essere affascinati dal gioco. Vince chi ha la migliore strategia: gli scacchi nascono come una battaglia fra eserciti e quindi per allenare i soldati. Fin dalle radici che si perdono nella notte dei tempi, in India forse 2300 anni prima della nascita di Cristo, si giocava in quattro, poi dal VII secolo dopo Cristo in Persia i giocatori divennero due".
Quale la prova più difficile per la mente?
"Battere il computer, che non si stanca e non si distrae. E quindi l’uomo può farlo solo se la sua strategia e la sua fantasia riescono a superare la rigidità della macchina".
Ci sono strategie che rendono il gioco unico?
"Sì, per esempio il ‘sacrificio di qualità’: perdere volontariamente un pezzo importante per guadagnare una posizione".
Gli scacchi possono in qualche modo stimolare la mente umana?
"Sì, e ci sono esempi importanti: Helenio Herrera convinse il presidente dell’Inter Angelo Moratti che i giocatori seguissero un corso di scacchi perché ‘non basta dare un calcio al pallone ma bisogna lavorare di squadra’. Guarda caso nel 1965 i nerazzurri vinsero scudetto e Coppa dei Campioni".
La scienza come si pone di fronte alla scacchiera?
"Nel suo libro ‘La galassia mente’ la premio Nobel Rita Levi Montalcini crea dei paralleli dicendo, per esempio, che i pedoni sono un po’ come i neuroni. E il più recente premio Nobel per la chimica, Demis Hassabis, è un noto problemista e ideatore di ‘Alfa 0’, un programma scacchistico all’avanguardia".
Gli scacchi non sono un gioco televisivo, la partita potrebbe durare molte ore. Però vantano una buona pubblicità sul piccolo schermo: serve?
"Certamente, anche se bisogna stare attenti: nelle prime puntate di ‘Don Matteo’, Hill e Frassica giocavano posizionando la scacchiera in modo sbagliato. Scrissi alla Rai e finalmente fu sistemata".
A proposito, come si mette la scacchiera sul tavolo?
"Con la casella bianca a destra in basso, e regina bianca sul bianco e nera sul nero...".