di Piero S.
Graglia
Esiste un luogo comune duro a morire, e cioè che l’Italia nel corso degli anni ’60 e ’70 abbia contato poco nella politica europea. Un’idea che ispira gli odierni inviti a "contare di più in Europa". Spesso è conseguenza diretta di un certo autolesionismo italiano; altre volte si cerca di sminuire il ruolo che la classe politica democristiana – con le sue luci e con le sue ombre – svolse fuori dal Paese. Insomma, va detto che non c’è stata solo la figura di De Gasperi negli anni ’40 e ’50 a eccellere, abbiamo avuto anche Amintore Fanfani, Emilio Colombo, Aldo Moro che occuparono e influenzarono la scena politica europea con autorevolezza ed efficacia.
Fu questo il motivo per cui, dopo le dimissioni di Charles de Gaulle nel 1969 e lo svolgimento di una importante conferenza tra i “sei“ all’Aja nel dicembre dello stesso anno (uno dei tanti "rilanci europei"), l’Italia poté chiedere il ruolo più importante a Bruxelles: la presidenza della Commissione. Per questo incarico, il ministro degli Esteri Aldo Moro suggerì la figura di Franco Maria Malfatti di Montetretto. Si trattava di un giovane democristiano laziale entrato in Parlamento nel 1958, all’età di 31 anni, che sembrava promettente.
Di nobili origini, discendente diretto di Filippo il Bello, Malfatti venne scelto non per il suo lignaggio bensì per la fiducia di Aldo Moro e soprattutto per essere uno dei pochi democristiani che avevano annusato e masticato questioni di politica estera in Italia. Merito dell’Istituto Affari Internazionali (IAI), fondato da Altiero Spinelli nel 1965 con un generoso grant della Fondazione Ford statunitense e il sostegno della Fondazione Olivetti e di Giovanni Agnelli.
Malfatti era stato sin dall’inizio uno dei frequentatori più assidui dello IAI, si era impratichito con la politica estera (ma poco ancora con quella europea) e pareva una splendida eccezione in un partito spesso abitato da pigri notabili.
All’epoca l’Italia aveva diritto, così come la Francia e la Germania, ad avere due commissari nella Commissione, un privilegio per i "grandi" che sarebbe durato fino al Trattato di Nizza (2000); ironia della sorte, accanto al nome di Malfatti, proposto dalla Dc, comparve proprio quello del fondatore dello IAI, proposto dai partiti “laici“ che si dividevano con la Democrazia cristiana le due nomine. Malfatti e Spinelli nel 1970 si trovarono in compagnia di personaggi di grande rilievo della politica europea: il tedesco Ralph Dahrendorf, l’olandese Sicco Mansholt (padre della politica agricola comune, la Pac), i francesi Jean François Deniau e Raymond Barre, grandi esperti di politica europea sin dalle origini.
Malfatti, assolutamente digiuno di cose europee, si trovò immediatamente poco a suo agio nell’alto ruolo direttivo. I dossier sul suo tavolo non erano di poca importanza: l’adesione britannica (con Irlanda e Danimarca) era stata infine accettata anche dalla Francia e la Commissione doveva gestire quell’importante partita, soprattutto dal punto di vista agricolo e finanziario. I rapporti con gli Stati Uniti si stavano rapidamente guastando per la rigidità dell’amministrazione Nixon e dei crescenti problemi monetari di un dollaro indebolito dalla guerra in Vietnam.
La vita della Comunità era uscita dalla fase pionieristica dei primi anni e all’Aja si era posta un trittico di obiettivi molto ambiziosi: "approfondire", "completare", "allargare" il processo di integrazione. Spinelli, da parte sua, non faceva mancare il suo ruolo di pungolo federalista, anche se il consigliere preferito di Malfatti fu sempre un giovane Renato Ruggiero, suo capo di gabinetto (nel 2001 sarà ministro degli Esteri nel governo Berlusconi II per sette mesi).
Il lavoro era diventato obiettivamente molto difficile e Malfatti, temendo che Bruxelles potesse danneggiare il suo futuro politico nazionale, prese una decisione drastica: nel marzo 1972 si dimise per candidarsi alle elezioni politiche anticipate indette dal presidente della Repubblica Giovanni Leone. Un "gran rifiuto" che si è tramutato in una sorta di oblio nei suoi confronti. Nei successivi anni Malfatti fu un qualunque ministro della Pubblica istruzione e poi delle Finanze nei vari governi italiani che si susseguirono, ma mai pensò di tornare a incarichi europei.
Spinelli invece continuò a essere commissario anche con il presidente che venne chiamato a sostituire Malfatti: Sicco Mansholt. Algido olandese di poche parole e molti fatti, la sua preoccupazione principale era proteggere la sua creatura, la Pac, esosa macchina distributrice di sussidi e motore del protezionismo europeo. Su questo non mancarono scontri con il commissario Spinelli ma alla fine la logica intergovernativa di Mansholt e i potenti interessi in gioco tennero a bada Spinelli.
Occasione persa per Malfatti e, forse, per l’Italia, che si avviava verso la stagione peggiore della sua storia.
2- continua