di Piero
S. Graglia
Il terzo lussemburghese a ricoprire la carica di presidente dopo i due lunghi e incolori mandati di Barroso, era molto simile a chi andava a sostituire. Non aveva una storia personale di rivoluzionarismo giovanile nelle file del movimento maoista, anzi; Juncker era perfettamente cresciuto nel sonnacchioso clima politico del granducato di Lussemburgo, facendosi le ossa come presidente della Banca Mondiale (1989-1995) e poi nel governo lussemburghese fino al 2013. Tuttavia, fu il primo presidente della Commissione europea a essere non "approvato" bensì "eletto" dal Parlamento europeo, per le modifiche introdotte dal trattato di Lisbona del 2007 che concretizzavano il crescente ruolo del Parlamento europeo nella scelta del presidente della Commissione.
Inoltre, dal trattato di Nizza del 2003 il Consiglio europeo (cioè i Capi di Stato e di governo dell’Unione) non doveva più designare il presidente della Commissione all’unanimità bensì con voto a maggioranza; questo portò inevitabilmente verso una "parlamentarizzazione" del processo di scelta del presidente, con la possibilità che governi e partiti nel Parlamento potessero di fatto determinare la nomina del presidente mettendosi d’accordo. Questo è avvenuto in parte per Barroso ma soprattutto nel caso di Juncker, primo presidente a entrare in carica con un voto decisivo del Parlamento europeo (per lui e per i commissari proposti) dopo una decisione del Consiglio presa a maggioranza.
La parlamentarizzazione del processo di designazione dovrebbe andare di pari passo con un accresciuto peso politico del Parlamento, ma questo non sempre è accaduto (a parte il recente secondo mandato di Ursula Von der Leyen).
Tuttavia, come si vede anche in queste settimane, il potere determinante è quello del Consiglio, vale a dire i governi che possono creare coalizioni tra loro. Alla fine, passato il momento della scelta, il Parlamento non ha più un controllo decisivo della Commissione, istituzione di fatto alle dipendenze del Consiglio. Con tutto questo, Juncker era poco noto al grande pubblico, ma si presentava con un alto profilo, ben conosciuto dagli addetti ai lavori. La sua azione come presidente fu molto simile a quella di Barroso: seguire la corrente e le indicazioni del Consiglio senza grossi scostamenti dall’agenda definita e determinata dai voleri dei governi dei paesi membri dell’Unione. Comunque, l’atteggiamento remissivo e poco incisivo di Juncker non può nascondere l’innovazione di rilievo fatta dal nuovo presidente: riunire i commissari in gruppi di lavoro, chiamati project team e pensati per occuparsi di aree tematiche, mettendo insieme i commissari competenti per materia coordinati da sei vicepresidenti. Si creò il team "Mercato unico digitale" (gruppo diretto dall’estone Andrus Ansip); quello sulla "Unione economica e monetaria" (diretto dal léttone Valdis Dombrovskis); il gruppo su "Lavoro, crescita, investimenti e competitività" (diretto dal finlandese Jyrki Katainen); il team su "Unione energetica e azione per il clima" (diretto dallo slovacco Maroš Šefcovic); il gruppo sulla "Politica estera" (diretto dall’italiana Federica Mogherini) e infine il gruppo su "Una nuova politica sull’immigrazione" (diretto dall’olandese Frans Timmermans).
Sei vicepresidenti, non tutti esponenti di Paesi importanti e fondatori, che rappresentano in fondo la trasformazione principale della Commissione durante gli anni di Juncker. Una istituzione che comincia a "sentire" in maniera consistente la pressione del Parlamento, resta alle dipendenze del Consiglio ma non abbandona la velleità, presente sin dai tempi di Hallstein, di "pesare" di più nel sistema istituzionale dell’Unione, cercando di orientare in maniera decisa lo sviluppo dell’Unione. Da questo punto di vista va detto che le briglie sul collo di Juncker furono sempre troppo tirate per portare a sviluppi significativi: il tema è sempre stato quello di privilegiare la stabilità economica e finanziaria dell’Ue a scapito di concessioni alla chimera dell’Europa sociale.
Gli anni 2014-2019 sono gli anni del rigore e del controllo sui conti, e in questo senso il freddo tecnocrate Juncker giocò il ruolo del mero esecutore della volontà dei governi schierati sul fronte dell’austerità senza compromessi, quale unica – e sciocca – risposta alla crisi. Vi furono però anche momenti di interessante evoluzione, soprattutto per quanto riguarda la politica estera. La quasi dimenticata Federica Mogherini, Alta Rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri e la sicurezza e vicepresidente della Commissione, giocò un ruolo di rilievo nel negoziato sull’accordo quadro per il nucleare iraniano, portando l’Unione intorno al tavolo con l’Iran, i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu (Stati Uniti, Cina, Russia, Francia e Regno Unito) e la Germania. L’accordo, concluso nel luglio 2015, sarebbe stato poi denunciato e vanificato dall’amministrazione Trump, restando comunque uno dei successi internazionali più rilevanti della "politica estera" dell’Unione. La Commissione Juncker, di fatto, ebbe poche luci sulla ribalta, a parte questa.