Gli artigli del Dragone graffiano anche dove non dovrebbero. L’acquisizione di aziende italiane (e non solo) da parte della Cina non riguarda solo i grandi marchi o società emergenti. Anche gli asset strategici, in teoria protetti nel nostro Paese dal golden power (la norma che dà la possibilità al governo di bloccare la cessione ad aziende straniere di realtà che operano in comparti come la sicurezza nazionale o la difesa), fanno gola a Pechino. La Guardia di finanza di Pordenone ieri ha denunciato sei manager (tre italiani e altrettanti cinesi) per la vendita della maggioranza della società italiana Alpi Aviation, che produce droni militari, aeromobili e veicoli spaziali, a due colossi statali cinesi attraverso l’utilizzo di una società offshore. Ma l’interesse degli imprenditori della Repubblica popolare non si sarebbe fermato in Friuli-Venezia Giulia: gli investigatori hanno accertato che la Cina avrebbe tentato di acquisire anche un’azienda di Segrate, nel Milanese, che si occupa di trattamento e generazione di energia dai rifiuti, e un’altra società, con sede a Roma, impegnata nella fornitura di servizi connessi alle tecnologie informatiche. I manager coinvolti negano di aver violato le norme a tutela del golden power e la legislazione che regolamenta il trasferimento di informazioni strategiche o di tecnologia al di fuori del territorio nazionale.
Al di là del caso specifico, non è una novità che la Cina sia interessata ad acquisire società che dovrebbero essere al di fuori della sua portata. Nell’aprile scorso il governo Draghi è stato il primo a utilizzare il ‘potere dorato’ proprio per fermare la cessione a una società cinese di un’azienda italiana che opera nel campo dei semiconduttori.
Ma quanto è forte la presa del Dragone nel nostro Paese? Secondo l’ultima relazione del Copasir, "risultano direttamente presenti in Italia 405 gruppi cinesi, di cui 270 della Repubblica Popolare Cinese e 135 con sede principale a Hong Kong, attraverso almeno un’impresa partecipata. Le imprese italiane partecipate da tali gruppi sono in tutto 760 e la loro occupazione è di poco superiore a 43.700 unità, con un giro d’affari di oltre 25,2 miliardi di euro". Le acquisizioni avvengono con sistematicità a ogni livello, nei settori strategici o a più alto valore aggiunto.
Il colosso cinese StateGrid, ad esempio, ha da diversi anni una significativa quota del 35% nella finanziaria delle nostre reti energetiche elettriche – Cdp Reti – che controlla Snam, Terna e Italgas. ChemChina, invece, è detentrice della maggioranza (45%) delle quote di Pirelli. La Shangai Electric Corporation ha in mano il 40 % di Ansaldo Energia, mentre quote di Eni, Tim, Enel e Prysmian sono sotto il controllo della People’s Bank of China, la banca centrale della Repubblica Popolare Cinese. Altre grandi imprese italiane con quote detenute dal Dragone sono Intesa SanPaolo, Saipem, Moncler, Salvatore Ferragamo e Prima Industrie.
La ragnatela attraverso cui il partito comunista esercita il suo soft power ovviamente si estende in tutto il mondo. Nel 2016 il ramo che produce elettrodomestici dell’americana General electric, ad esempio, è caduto nelle grinfie del Dragone. La Nexen, colosso canadese del petrolio, è finita sotto l’ombrello della Repubblica popolare nel 2013. La tedesca Krauss-Maffei, leader mondiale nella produzione di macchinari e attrezzature per la plastica e la gomma, è passata di mano nel 2016. Sullo sfondo di queste continue acquisizioni si staglia poi la madre di tutte le battaglie, quella per il 5G. La Cina sta promettendo a molti Paesi di implementare quasi gratuitamente le infrastrutture per entrare nella prossima era della comunicazione. Il rischio? Che Pechino sfrutti la Rete per controllare gli utenti. Diversi analisti, inoltre, temono che la Cina possa installare ‘interruttori nascosti’ in grado di spegnere tutte le telecomunicazioni in caso di guerra. Ecco perché è importante, ogni tanto, dare una spuntatina agli artigli del Dragone, se diventano troppo affilati.