Lunedì 3 Febbraio 2025
RITA BARTOLOMEI
Cronaca

La carezza di Pupi Avati: la terapia è amare

Il regista ha dedicato all’Alzheimer il film ‘Una sconfinata giovinezza’. "Guardando mio suocero malato ho capito che i farmaci non servono".

Il regista Pupi Avati

Roma, 31 agosto 2020 - Pupi Avati, 81 anni, bolognese. Regista, produttore, scrittore. All’Alzheimer ha dedicato ‘Una sconfinata giovinezza’, era il 2010. L’ha definita "la prima storia d’amore che io abbia mai narrato".

"Il sentimento si trasforma con la malattia, il protagonista nella sua regressione torna all’infanzia, la moglie diventa una madre".

Fabrizio Bentivoglio è Lino, giornalista sportivo che un po’ alla volta si perde nella demenza. Chicca, la donna della sua vita, interpretata da Francesca Neri, se ne prende cura come fosse il figlio mai avuto.

Perché ha voluto affrontare un tema così difficile, che sconta ancora un forte pregiudizio sociale?

"Sicuramente ha influito quel che stava accadendo in famiglia, a mio suocero. Dimostrava una memoria nitidissima sulla sua infanzia. Invece non ricordava quello che aveva mangiato mezz’ora prima o dove eravamo. Ce lo chiedeva continuamente".

Che cosa le ha dato questo film?

"La certezza che la terapia migliore sia l’affettività, l’amore. Non c’è altro che quello. Non esistono farmaci. L’avevo già intuito in casa. Mia moglie veniva respinta, non riconosciuta, aggredita dal padre che la riteneva una sconosciuta. Ma quando lei si aggrappava a lui e iniziava a dirgli, sono io papà, ti voglio bene, improvvisamente si aprivano squarci di lucidità del tutto inattesi".

Lei ha anche scritto il film. È stato difficile portare al cinema questa malattia in modo credibile?

"Ho lavorato con Luisa Bartorelli, una delle più grandi esperte italiane di Alzheimer, e con il geriatra Roberto Bernabei. Abbiamo avuto la certezza di raccontare una storia assolutamente verosimile".

Morbo misterioso e terribile.

"L’ho definita la malattia dei parenti. Una grande sofferenza. Da un certo punto in avanti si ha la sensazione che la persona se ne vada. Il malato non si rende conto del dolore che prova chi non è più riconosciuto".

C’è la regressione ma anche l’aggressività, ricordava.

"Un movimento mentale che attira un narratore. Io faccio quello, il narratore. Probabilmente è la patologia più affascinante da raccontare. Una specie di tapis roulant...".

Come hanno reagito gli spettatori?

"’Una sconfinata giovinezza’ non ha avuto successo, i film che trattano queste patologie in genere la gente non li vuole vedere. Ma ho ricevuto un’infinità di attestati di riconoscenza dalle famiglie, con la Bartorelli abbiamo girato tutta Italia, visitando i centri di caregiver".

La conclusione: Francesca finisce in coma per un incidente, Lino resta solo.

"Si perde ma ritrova il cane che era stato di suo padre e sparisce in uno spazio dove sarà felice. Questo racconto ha dato ai parenti una sorta di illecita consolazione, ha prodotto poi un’infinità di gesti di riconoscenza nei miei riguardi. Tante, tante persone che vivono questo problema mi hanno ringraziato".

Quelle famiglie si sentono abbandonate.

"Certo, questo è un problema sociale molto ampio. Ma si potrebbe estendere anche ad altro. Vivo a Roma, sto girando di più per i sopralluoghi di un film. Vedo che ormai chi è in difficoltà viene abbandonato dalle istituzioni. E questo accade senza sensi di colpa".

Sta pensando a un nuovo soggetto?

"No al degrado della città, a chi dorme per strada nell’indifferenza più totale di chi gli passa accanto. Nei sacchi a pelo, nei cartoni... Durante il giorno, in pieno centro, non nelle periferie più abbandonate. C’è un disagio economico, sociale. Roma è un suk. Dolorosissimo e colpevole. E non si può immaginare come ci si possa candidare a gestire la situazione se fino ad oggi è andata così".