Roma, 14 maggio 2018 - Ma quale strumento di sottomissione, al contrario è dal Corano che scaturisce l’emancipazione femminile nel mondo islamico: temerarie e anticonformiste, così la pensano le studiose musulmane che a partire dagli anni ‘90 stanno ingaggiando una sorta di jihad delle donne contro l’interpretazione fondamentalista del libro del Profeta. Quella che ammanta di sacralità prassi rurali e tribali che legittimano l'analfabetismo e la violenza domestica o psicologica ai danni di mogli, sorelle e figlie in diversi Paesi a tradizione coranica. Amina Wadud, Fatima Mernissi, Laleh Bakthiar, Ani Zonneveld: in Occidente le chiamano femministe islamiche, il modo miglior per far loro un torto.
A spiegarlo è il professor Massimo Campanini, docente di Pensiero islamico e Storia dei Paesi islamici all'Università di Trento. “Queste autrici sono le prime a non volere essere etichettate come femministe - argomenta -. Considerano il femminismo come un prodotto dell’Occidente, nato per rivendicare i diritti delle donne, prescindendo dalla religione intesa come causa e ostacolo di una battaglia culturale. Nel caso di queste studiose, invece, non si rifiuta la fede, ma si fa leva su essa per affermare l’eguaglianza tra i sessi”. A fronte di una sensibile differenza di approcci e background culturali (la più radicale Wadud è un’afroamericana, Zonneveld è cresciuta in Europa, mentre Mernissi, scomparsa nel 2015, era marocchina), che rispecchia tra l’altro la varietà della galassia musulmana, al netto di certe comode semplificazioni, tutte queste autrici hanno una concezione polisemantica del Corano. “Nell’esegesi del testo - continua Campanini - si avvalgono del metodo storico-critico. Contestualizzano i versetti e i precetti normativi, spesso piuttosto rigidi nei confronti delle donne, riscoprendo lo spirito etico egualitario del Corano. I loro lavori sono particolarmente seri e sempre più diffusi, anche se ancora non hanno una gran presa sulla popolazione, per lo più povera e contadina, dell’islam”.
In Italia negli ultimi anni sono stati pubblicati un paio di volumi per chi volesse approfondire il percorso e le prospettive della teologia musulmana progressista al femminile: si tratta di 'Femminismi islamici' (a cura di Ada Assirelli, Marisa Iannucci, Marina Mannucci e Maria Paola Patuelli, edizioni Fernandel, 2014) e del libro 'La jihad delle donne' (Luciana Capretti, Salerno editrice, 2017). Uno dei temi approfonditi dalle studiose liberal di Allah è certamente quello del velo. Nessuna imposizione può essere ammessa o tollerata, ma in generale non si esclude che indossare l’hijab possa essere un segno di volontaria distinzione contro l’omologazione occidentale. Se le donne musulmane hanno il dovere di indossare il velo - era l’arguta provocazione della Mernissi, nel suo capolavoro 'L’Harem e l’Occidente' (Giunti, 20006), quelle occidentali vivono oppresse dall’obbligo di entrare nella taglia 42.