Sabato 31 Agosto 2024
GIOVANNI BOGANI
Cronaca

"Io, l’anglo-pisano mago delle serie tv Ma con Camilleri l’inglese era vietato"

Il regista nato a Londra e cresciuto in Toscana: al primo incontro col Maestro mi ordinarono di evitare parole straniere

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"di Giovanni Bogani

"Finalmente ho capito che cosa devo fare da grande. Mi viene meglio fare il regista"". Roan Johnson, cognome inequivocabilmente british ma accento pisano, anima inquieta, racconta e si racconta. Nelle sue molte anime: studioso di cinema, sceneggiatore, scrittore, regista di film indipendenti e di fiction di successo, come I delitti del BarLume (su Sky e Now) e, in questi giorni su Prime video, Monterossi con Fabrizio Bentivoglio.

Adesso Roan, quarantasette anni il prossimo marzo, ha fatto pace con i suoi molti destini. O forse è solo una tregua. Con il suo primo romanzo, Prove di felicità a Roma Est, aveva vinto un importante premio letterario: col secondo rivelava nevrosi al cui confronto Woody Allen sembra un dilettante. "Ma finalmente ho capito: soffro la solitudine dello scrittore. Lo scrittore è un maratoneta, corre da solo, fino allo sfinimento. Il regista gioca a calcio, con un sacco di gente. Meglio".

La sua carriera è in continua ascesa. I film, poi il successo del BarLume e, ora, quello di Monterossi. Un po’ come il titolo di un suo film, Fino a qui tutto bene.

"Ho cominciato con i film indipendenti, con budget piccolissimi. Facevo tutto con poco, come nella ricetta della ‘pasta col nulla’ che Guglielmo Favilla cucinava per i suoi amici studenti: fai una pasta, e ci metti il nulla: un niente di tonno, un dito di olio, un sospiro di formaggio... Adesso Monterossi è la cosa più grande che mi sia capitata".

Il suo cognome così british le ha mai creato problemi? Lei, prima di tutto, si sente inglese o pisano?

"In Toscana mi sento pisano: a Roma divento genericamente ‘toscano’. Di britannico credo ci sia, in me, un senso dell’ironia, che si mescola bene con l’ironia toscana".

Che cosa hanno in comune Londra e Pisa?

"Sia gli inglesi che i toscani hanno un’ironia che desacralizza. Che butta giù l’autorità, e che non si ferma davanti a niente. Neppure di fronte al massimo del sacro, di fronte alla morte o di fronte a Dio. Non lo fa per violenza o cattiveria, ma perché – sia in Inghilterra che in Toscana – abbiamo ben presente come tutto sia fragile, soggetto a dissoluzione, a sparire".

Un’ironia spietata.

"Soprattutto verso se stessi. Shakespeare riesce a ridere anche della morte di un re, riesce a inserire momenti comici nei momenti più tragici. Ed è la stessa cosa che fanno Monicelli e Risi".

La commedia all’italiana e Shakespeare si somigliano?

"Mario Monicelli, toscano di Viareggio, ne La grande guerra ti fa ridere fino all’ultimo. E poi, zac!, un evento duro, insostenibile, tragico. Shakespeare e la commedia all’italiana hanno questo in comune: ridi e piangi nella stessa opera".

Ha anche diretto gli ultimi due episodi tratti da Andrea Camilleri, La stagione della caccia e La concessione del telefono. Ha avuto modo di incontrare lo scrittore?

"Per fortuna sì. Quando andai per la prima volta a casa sua, il produttore Carlo Degli Esposti – un ‘duro’, uno che non si emoziona – era pallido come uno straccio. Temeva che non piacessi a Camilleri: ‘mi raccomando, non chiamarlo Camilleri. E nemmeno Andrea. E nemmeno professore. E nemmeno maestro. E non dire mai parole inglesi!’. Ero terrorizzato anche io. Per fortuna ci piacemmo molto, e lavorammo un anno e mezzo insieme".

Che tipo di regista ritiene di essere?

"Il mio re e la mia regina sono la storia e i personaggi. E con i personaggi, ci sono gli attori. Filippo Timi è un fuoriclasse non sempre prevedibile".

Com’è andata questa estate?

"Filippo è nel suo periodo migliore, di tutta la sua vita, personale e artistica. È la versione migliore di se stesso. La scorsa estate, all’isola d’Elba, è stato meraviglioso girare con lui. Il regista fa l’allenatore, ma poi in campo, nel film, ci devono andare i giocatori. Ed è bello giocare tutti insieme".

Le piace l’atmosfera del set?

"Da morire. Mi piace, per citare Sandro Veronesi, il caos calmo che c’è in ogni set. E anche dopo, se possibile, si gioca insieme".

Per esempio?

"Prima della pandemia, le puntate del BarLume le vedevamo tutti insieme, ogni anno, e ridevamo come pazzi. Ogni attore ricordava qualche episodio accaduto fuori campo, era come una visione davvero speciale. A ottant’anni metterò tutti i Barlumi su dei dvd, e li vedrò come i filmini delle vacanze di quando ero giovane".

Lavorare con Fabrizio Bentivoglio come è stato?

"È venuto in mente a me. Sapevo che non avremmo mai trovato nessuno così bravo: è un po’ più avanti con l’età del personaggio ‘sulla carta’. Ma alla fine, dato che il vero tema della serie è la malinconia, era molto meglio così. Bentivoglio è pazzesco: non scorda mai una battuta, non scorda mai il millimetro esatto dove deve trovarsi. Lui, fra gli attori, è Cristiano Ronaldo".