Il tempo stringe per trovare la quadra, tra i ministeri dell’Economia e del Lavoro, al rebus del dopo Quota 100. E l’ipotesi che si fa sempre più realistica tra i tecnici dei ministeri e dell’Inps è quella basata su un’uscita dal lavoro a 63 anni, con penalizzazioni sull’assegno. Ma non è ancora stato sciolto il nodo tra la ricetta Tridico (assegno anticipato solo nella quota contributiva) e la ricetta Damiano (pensione intera, ma con penalizzazioni per la quota retributiva). Anche perché la soluzione individuata dal presidente Inps prevede un grosso taglio del trattamento erogato in anticipo. Basti pensare che un lavoratore nato nel 1960, che abbia cominciato a lavorare nel 1985, con uno stipendio di 1.800 euro, potrebbe incassare 847 euro a 63 anni e 1.253 dai 67 anni in avanti. Oltre all’intervento che passa per l’ampliamento dell’Ape sociale attraverso l’individuazione di nuove categorie di lavoratori che svolgono attività cosiddette gravose, il governo pensa sempre più a misure strutturali e generalizzate, non legate quindi a specifiche attività lavorative svolte.
Anche perché i sindacati e la Lega non accetterebbero un esito basato solo su soluzioni specifiche come possono essere l’Ape sociale e opzione donna. E così il rafforzamento e l’estensione dell’Ape sociale e la conferma dell’opzione donna dovrebbero costituire solo un pezzo del pacchetto di riforma previdenziale. Ma servirà comunque una misura più ampia che permetta di tenere in riga i conti ed evitare, però, che da gennaio si passi di colpo da 62 a 67 anni (lo scalone) per andare in pensione. Tanto più che è da considerare bocciata la soluzione dei 41 anni di contributi a prescindere dall’età, perché eccessivamente onerosa: 9 miliardi nel 2029.
Come soluzione generalista, dunque, c’è innanzitutto quella che è stata ribattezzata Ape contributiva. In sostanza, i lavoratori con almeno 20 anni di contribuzione, che abbiano 63 anni e che abbiano maturato un assegno pari o superiore a 1,2 volte l’assegno sociale (618 euro mensili) potrebbero lasciare il lavoro in anticipo ottenendo come trattamento solo la quota di pensione maturata e calcolata con il metodo contributivo. Mentre l’altra fetta, quella derivante dal calcolo retributivo, verrebbe incassata dai 67 anni in avanti.
La possibile platea interessata alla misura secondo Tridico è calcolabile in circa 200mila lavoratori in tre anni, con un costo dovuto solo all’anticipazione di cassa, ma non effettivo, perché i lavoratori anticipano la pensione che hanno accumulato con i loro contributi. Il problema è che l’anticipo risulterebbe troppo basso al punto da disincentivare la scelta e da vanificare l’intero meccanismo. Di fatto una strada sbarrata, se non per i lavoratori che abbiano il conteggio della pensione fondato interamente sul calcolo contributivo. Ben differente è l’impostazione della ricetta Damiano: uscita dai 63 anni in avanti, con anticipo di 4 anni, con penalizzazione del 2-3 per cento per ogni anno fino a un massimo di taglio dell’8-12 per cento, ma solo per la parte "retributiva" dell’assegno. "Rispetto al 2013 quando è stata presentata – spiega l’ex ministro – si tratterebbe di una soluzione meno costosa per lo Stato e meno penalizzante per i lavoratori, perché nel frattempo è aumentata la parte calcolata con il sistema contributivo". Nel confronto con l’intervento di Tridico, la via indicata dall’ex ministro del lavoro ha il pregio di attribuire al lavoratore la pensione per intero senza dover attendere i 67 anni, anche se la penalizzazione vale per tutta la durata del trattamento: una penalizzazione che, però, a conti fatti appare accettabile.