Roma, 6 novembre 2019 - Lo scudo penale per l’Ilva risale al 2015. Cuore ne è l’articolo che esenta da responsabilità i soggetti gestori dell’Ilva di Taranto e i loro delegati per l’attuazione del Piano ambientale. La legge stabilisce che "non possono dare luogo a responsabilità penale o amministrativa del commissario straordinario, dell’affittuario o acquirente e dei soggetti da questi funzionalmente delegati, in quanto costituiscono adempimento delle migliori regole preventive in materia ambientale, di tutela della salute e dell’incolumità pubblica e di sicurezza sul lavoro". Questo per evitare che i nuovi amministratori siano chiamati, nell’attuare il piano di risanamento, a rispondere di responsabilità precedenti il loro arrivo.
Lo ‘scudo’ è cambiato ben due volte. Una prima volta col decreto legge 34, già convertito in legge, che ha previsto l’abolizione dell’immunità dallo scorso 6 settembre. Ma il governo gialloverde ne ha poi proposto il ripristino col decreto legge 101, prevedendo l’immunità "a scadenza progressiva". Se prima vigeva per tutta la durata del piano ambientale (termine: agosto 2023), il nuovo scudo seguiva l’iter di messa a norma di ciascun impianto con un perimetro applicativo più circoscritto, valeva solo per gli attuali gestori e i futuri acquirenti, e non più per i commissari. Chiamata in causa dal gip di Taranto che contestava lo scudo in quanto "non rispettoso di vari principi costituzionali", la Corte Costituzionale ha deciso lo scorso 9 ottobre "la restituzione degli atti al gip, il quale, considerato che il legislatore è intervenuto due volte, dovrà valutare se permangono i dubbi di legittimità costituzionale". Ma il parere del gip è superfluo: dopo le due modifiche, il governo, ora giallorosso, convertendo in legge il decreto 101, ha deciso di abbandonare l’ipotesi scudo penale. Che adesso, spinto da ArcelorMittal, potrebbe valutare di ripristinare.