In quell’intramontabile mondo del generone romano con cui la politica nostrana finisce sempre per specchiarsi, dove tutti si danno del tu e recitano solo la parte in commedia dei finti-avversari, nell’epoca in cui la comunicazione sostituisce il messaggio e la contundente leggerezza dei social è l’unico mezzo per misurare la politica, ecco che la studiata misura, il rigore e la naturale essenzialità di Mario Draghi arrivano come un’asteroide sconosciuta che piomba nel bel mezzo di una festa di paese. Boom. Sono bastati due giorni da presidente incaricato per segnare una discontinuità non tanto con i leader precedenti, quanto con lo spirito del tempo in cui la politica caciarona, superficiale e ignorante è da un po’ rimasta avvinghiata. Finite le dirette tv che hanno reso celebre Giuseppe Conte, la vita in diretta sui social di Matteo Salvini e di leader che hanno fatto dell’ostensione della propria vita privata un momento di comunicazione pubblica. Le casalinate con quei tweet a tutte le ore del giorno e della notte, i book fotografici del premier fintamente sorpreso al mare con la fidanzata, a parlare per strada con la gente comune, al duro lavoro di Palazzo. Tutto molto finto da sembrare vero, come al Grande fratello.
Draghi invece ha lavorato per sottrazione, adesso come ai tempi della Bce, mostrandosi meno che poteva, parlando solo per quello che serviva. Ben cosciente che le parole non si contano ma si pesano. Il suo "whatever it takes", quindici lettere, ha inciso più delle fiumane di discorsi di tanti prima di lui. Draghi sa che nell’epoca dell’immagine dove tutto si appiattisce alla lunga sono i fatti a marcare la differenza, e che competenza e concretezza pagano più delle chiacchiere che si sovrappongono sbiadite. Per dire, a lui una inconcludente pagliacciata tipo gli Stati generali partoriti dalla fantasia di Rocco Casalino non sarebbe venuta in mente, la grande presa in giro all’Italia fatta con le inutili task force di Colao non l’avrebbe tollerata.
Draghi è sempre stato così, e lo sarà anche adesso. In questi due giorni di incontri è entrato alla Camera da ingressi secondari, ogni volta diversi per evitare incontri inopportuni con i giornalisti, non ha mai rilasciato dichiarazioni. Non è presente e non lo sarà sui social, niente Facebook, niente Instagram, non ha neppure WhatsApp. Non si è dotato di un portavoce, e con terrore dei giornalisti pare che voglia affidarsi per la comunicazione al vecchio team di Bankitalia, gente selezionata per non parlare con nessuno. Ha accolto tutte le delegazioni dei partiti da solo, senza quegli ipertrofici staff che i politici sfoggiano per mostrare quanto sono bravi. Ha preso appunti personalmente con la sua penna Bic, ha dato a tutti del "lei", nonostante sia consuetudine tra politici passare subito al "tu". Si è limitato al "tu" solo i pochi che aveva già frequentato, come Matteo Renzi con il quale ha lavorato ai tempi della Bce. Ha ascoltato, ha interloquito come è nel suo stile. Che è calmo, riservato ma per niente cedevole. Da sempre, fin dai tempi della direzione del Tesoro, è descritto molto determinato, come sono quelle riserve della repubblica a cui l’appartenenza all’élite statale conferisce la consapevolezza di non essere una persona come le altre, e proprio per questo si permette il lusso di comportarsi come uno qualunque. Se fosse per lui, dice una persona che lo conosce bene, il soprannome di "SuperMario non se lo sarebbe mai dato".
Prima di lui ci fu Mario Monti che con il suo loden verde fece conoscere agli italiani il linguaggio austero della competenza professorale; poi anche Monti non seppe resistere ai frizzi e lazzi della politica-spettacolo, prese in braccio un cagnetto in diretta tv e tutto finì, perché quando i tecnici si mettono a recitare allora vincono i politici, più avvezzi alla finzione. Tra un bugiardo e uno che dice bugie si crede sempre al primo. Draghi non commetterà lo stesso errore. Ha tenuto a bada la Merkel con tre parole, e questo basta.