La questione salariale, con l’inflazione a due cifre, è diventata esplosiva. Come cominciare a recuperare il potere d’acquisto perduto? "Per avere effetti significativi nel breve-medio periodo è necessario agire immediatamente su due fronti – avvisa Maurizio Del Conte, ordinario di Diritto del lavoro alla Bocconi, tra i registi del Jobs Act –, da un lato tutti i contratti collettivi nazionali devono prevedere, come già accade in alcuni settori, meccanismi di recupero dell’inflazione ex post, così da non innescare la spirale inflattiva, rivedendo il parametro dell’Ipca perché in una fase come questa non si possono ignorare gli aumenti dovuti ai beni energetici importati. L’altro fronte è quello di una revisione della tassazione sul lavoro, oggi tra le più elevate al mondo".
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Più di sei milioni di lavoratori hanno il contratto collettivo scaduto. Come spingere le parti al rinnovo? Può essere utile la detassazione degli aumenti?
"La detassazione degli aumenti può sicuramente incentivare i rinnovi contrattuali, a patto che si preveda un meccanismo semplice, generale e incondizionato. Alzare le retribuzioni in questa fase congiunturale dagli sviluppi imprevedibili è una scommessa per le imprese e va sostenuta senza imporre verifiche sugli aumenti di produttività o di risultato, come fatto in passato".
Da più fronti si sostiene che la causa del divario tra gli stipendi italiani e quelli dei nostri partner europei sia, però, la minore produttività italiana. È così o ci sono altri fattori?
"La bassa produttività è una piaga che affligge il nostro sistema produttivo da tre decenni, ma da sola non spiega un divario salariale di quasi trenta punti percentuali rispetto alle economie europee a noi più vicine. Oltre al carico eccessivo della fiscalità, scontiamo una grave inefficienza dell’ecosistema infrastrutturale. E non mi riferisco solo alle infrastrutture fisiche – energia, trasporti e digitalizzazione – ma anche a quelle istituzionali e non meno crucial, come la giustizia e la Pubblica amministrazione".
C’è chi individua nella contrattazione aziendale la sede per stabilire gli aumenti salariali. La sua valutazione qual è?
"La contrattazione aziendale è il luogo d’elezione per redistribuire quote di valore prodotto e, quindi, per agire la leva salariale. Ma ricordiamoci che nella maggior parte delle imprese italiane – in particolare quelle medio-piccole - l’unico contratto collettivo applicato è quello nazionale. Perciò sarebbe auspicabile un nuovo patto sociale tra governo imprese e sindacati in cui si prevedano strumenti di sostegno e incentivi fiscali ai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni maggiormente rappresentative che introducono meccanismi di recupero salariale".
Il contratto nazionale serve ancora, dunque, come strumento di tutela del salario?
"È lo strumento che consente di trovare il miglior punto di equilibrio possibile tra imprese e lavoratori nella determinazione dei minimi salariali. Ma va fatta pulizia dei contratti pirata, incentivando i più rappresentativi".
Quanto incide la precarietà nei bassi salari italiani?
"Purtroppo, i bassi livelli salariali sono un problema endemico nel nostro Paese, che riguarda sia i contratti precari che quelli stabili, come ben sanno i milioni di italiani che, pur con un lavoro a tempo indeterminato, stanno faticando a far quadrare i conti a fine mese. E la concorrenza sleale del lavoro irregolare non fa che aumentare la spirale al ribasso delle retribuzioni".
Chiudiamo con il peso del cuneo fiscale: quanto conta e come intervenire?
"Le imprese italiane devono poter competere ad armi pari. Occorre avviare un percorso di progressiva riduzione del cuneo fiscale con l’obbiettivo di collocarci nella media europea. È sicuramente una operazione costosa, ma il migliore investimento che si possa fare per lo sviluppo del Paese è quello sul lavoro".