Firenze, 25 giugno 2023 – Questa è una brutta storia.
Perché di mezzo c’è una bambina e le storie di bambini, nella vita vera, spesso non sono a lieto fine come nelle favole. E questa è tutt’altro che una favola, anzi, assomiglia di più a quelle storie di paura che ci venivano raccontate da bambini e che, talvolta, erano usate come deterrente dai nostri nonni per frenare l’incoscienza dell’età: "Attento, che poi viene l’Uomo Nero".
Già, l’Uomo Nero, quello che ti prende e ti porta via, che non ha un nome, non ha un volto, non ha probabilmente neppure un’anima. Perché ci vuole un cuore freddo e profondo come l’oceano per diventare il protagonista di questa storia, dove la vittima è una bambina di cinque anni, Kata, che ci sorride da ogni fotografia, la sola cosa che da quindici giorni ci è rimasta di lei. Povera, piccola caduta in un buco nero nel cuore di Firenze, che assiste a una storia terribile, sudata e come sempre indaffarata nei suoi mille problemi.E poi c’è un’inchiesta, nata male dall’inizio e finita, a oggi, su un binario morto.
Perché Kata non si trova più. E dico subito la cosa più dolorosa, ma che si fa sempre più probabile ogni minuto, ogni ora e ogni giorno che ci allontana dal momento della sua scomparsa: la possibilità che ormai Kata sia morta. Non solo perché sono passati quindici giorni, ma anche, e soprattutto, perché lo scenario che potrebbe far pensare a una bambina così piccola ancora viva, dopo tutto questo tempo, fa rabbrividire ed è meglio non pensarci neanche. Quindi, per quanto paradossale, miracoli esclusi, il ritrovamento della piccola Kata è a oggi lo scenario meno drammatico possibile. Viva? Magari. Morta? Doloroso ma possibile. E in quel caso la storia finirebbe lì. Se invece non venisse ritrovata, la storia di Kata non finirebbe mai e, da genitore, credo che non possa esserci un supplizio peggiore nel non sapere dove sia finita tua figlia.
L’ultima immagine in vita di Kata è quando una telecamera la vede rientrare in quella che di fatto è casa sua, ossia l’ex hotel Astor, un albergo occupato da 130 peruviani dove dentro c’è di tutto: droga, racket e Dio solo sa cosa altro. Da mesi il quartiere di San Jacopino è in rivolta e gli abitanti chiedono di mandar via tutta quella gente, ma questa è tutta un’altra storia.
Kata rientra a casa alle 15.13 del 10 giugno, ce lo dice una telecamera. È sola perché ha litigato con alcuni suoi amichetti, con i quali gioca sempre mentre la mamma è al lavoro e lui è affidata a uno zio. Il babbo? Il babbo è in carcere. Le prove dell’esistenza in vita di Kata finiscono lì. Un’ora e mezzo più tardi, alle cinque meno un quarto del pomeriggio, la mamma si accorge che la bambina non si trova più e scatta l’allarme.
L’inchiesta parte. E parte già male. Perché la procura non ordina l’immediata chiusura della scena del crimine. L’ex hotel Astor non viene sigillato e gli occupanti non sono allontanati in blocco immediatamente, tanto che i cani molecolari, alla ricerca delle tracce della piccola, saranno utilizzati solo il giorno dopo e si perderanno nei meandri dell’ex Astor fra odori di cucina e fetori di ogni tipo.
Entra in campo anche la Direzione distrettuale antimafia, perché alla procura di Firenze – priva da tempo di un capo – aprono creativamente un fascicolo per sequestro, reato per cui è appunto competente la Dda. La pista è una sola: la bimba è stata presa da qualcuno legato alla famiglia, forse è una vendetta contro i genitori, anzi è una faida fra clan peruviani. Ed è una tesi sorprendente dato che, a Firenze, le bande di peruviani – ammesso e non concesso che qui esistano e che siano violente come nel nord Italia – sono note solo per essere una criminalità di piccolo cabotaggio e non appaiono come una criminalità di alto spessore, in grado di gestire addirittura il sequestro di una bambina.
Ma tutte le risorse investigative sono concentrate lì: sull’Astor. E si fa quello che non si dovrebbe mai fare, come insegnava anche un magistrato sopraffino come Pier Luigi Vigna: non si cerca di confutare la propria tesi, di falsificarla come diceva l’epistemologo Karl Popper di cui Vigna (laureato anche in filosofia) era un grande estimatore, ma ci s’innamora della propria teoria. Ed è, e sarà, la cosa più sbagliata possibile nel corso di un’indagine.
La bimba non si vede mai uscire dall’ex Astor, ergo è lì dentro, viva o morta. E quindi l’ex hotel di via Maragliano, tremila metri quadri di degrado e disagio sociale,viene svuotato e ribaltato per due giorni: si guarda ovunque, anche nelle fogne, nei tombini. E nessuno, nel frattempo, pensa a fare una cosa logica: acquisire le immagini delle migliaia di telecamere di videosorveglianza della città. Lo si farà solo dopo dieci giorni. Mentre le certezze si sgretolano: Kata non è lì, all’Astor.
Così l’indagine riparte da zero. E allora proviamo a percorrere una strada alternativa e ipotizziamo che chi vuol prendere un bambino non possa trovare posto migliore di una struttura come l’ex Astor, dove i bambini venivano lasciati soli per ore. E una volta capito questo, basta poco, basta mettersi lì e osservare. E aspettare l’occasione giusta. Guarda caso, infatti, Kata sparisce proprio nel momento in cui resta sola, rientra nell’ex hotel e non viene vista uscire più. Ma quell’immobile è un colabrodo con mille uscite e una bimba di 5 anni è piccola, tanto che, magari svenuta, può essere infilata in una valigia o un borsone e portata via.
La parola pedofilia è un pesantissimo sipario nero che ora cala su tutta questa storia. E ora tutti noi speriamo, anche contro la logica, che Kata sia ancora viva e che non sia morta subito, o quantomeno che il suo passaggio dall’altra parte sia stato rapido e meno doloroso possibile. Perché, ripetiamo, sarebbe davvero un miracolo se Kata fosse ancora viva, oggi. Ma è intollerabile immaginare cosa le può esser successo negli ultimi quindici giorni. E dunque, ma è maledettamente difficile da spiegare, spero che Kata sorrida ora e per sempre. Nelle foto. E che abbia smesso di soffrire.