Il Ministero dell’Interno è stato condannato a pagare 3 milioni di euro per il mancato sgombero del Leoncavallo. La Corte d’Appello del Tribunale civile di Milano ha ribaltato il verdetto di primo grado, che aveva dato ragione al Viminale e torto ai proprietari: per i giudici, "può ritenersi acclarata la natura illecita del contegno serbato dall’amministrazione, che, pur nella piena consapevolezza dell’occupazione abusiva che interessava lo stabile oggetto di causa, non ha dato corso all’esecuzione del provvedimento giudiziario e, adducendo solo generiche difficoltà di ordine pubblico in caso di sgombero, ha lasciato che il tempo passasse, senza adoperarsi effettivamente per pervenire a una soluzione". Un verdetto datato 9 ottobre 2024, ma diventato di dominio pubblico proprio nei giorni delle polemiche innescate dagli scontri di Bologna e dalla richiesta di chiudere i centri sociali occupati del ministro Matteo Salvini, di cui qualcuno ha ricordato nelle ultime ore l’intervento del 12 settembre 1994 a Palazzo Marino da giovanissimo consigliere comunale leghista per rivendicare i trascorsi da liceale al Leonka e per difendere i giovani che lo frequentavano all’epoca ("Non prenderebbero mai in mano un sasso o una spranga").
E questa storia inizia proprio 30 anni fa, quando i militari del centro sociale fondato nel 1975 occupano l’ex cartiera di via Watteau, ancora oggi la loro sede. Nel 2003, arriva la prima sentenza spartiacque: il Tribunale condanna l’associazione "Mamme antifasciste del Leoncavallo" al rilascio dell’immobile, di proprietà della società "L’Orologio srl" della famiglia Cabassi. Il 5 novembre 2004, la Corte d’Appello conferma la pronuncia, che nel 2010 diventerà irrevocabile. L’11 marzo 2005, l’ufficiale giudiziario entra per la prima volta nei capannoni in zona Greco per consegnare l’avviso di sfratto. Ci torna pure un paio di mesi dopo, ma non può mettere in atto l’ordine di rilascio per due motivi: gli occupanti non se ne vogliono andare; e le forze dell’ordine non ci sono, nonostante una lettera inviata dai Cabassi una settimana prima per avere garanzie sulla "fruttuosità dell’esecuzione".
I tempi si allungano: basti dire che gli accessi ai locali per notificare la richiesta di sgombero hanno scollinato quota 110. Nel frattempo, parte una trattativa tra Comune e proprietà per arrivare a una soluzione, ma le ipotesi per "regolarizzare" il Leonka (permuta di un immobile o scambio di volumetrie) restano sulla carta. A quel punto, i Cabassi fanno causa a Viminale e Presidenza del Consiglio: in primo grado perdono, ma in secondo vincono. La Corte d’Appello – che ha escluso responsabilità di Palazzo Chigi e le ha accollate tutte al Ministero e ai suoi organi territoriali Prefettura e Questura – ha sentenziato che i Cabassi hanno diritto al risarcimento, richiamando pronunciamenti di Cassazione e Corte europea dei diritti dell’uomo. A cominciare da quello che ha stabilito che "il rifiuto di assistenza della forza pubblica all’esecuzione dei provvedimenti del giudice, che sia determinato da valutazioni sull’opportunità dell’esecuzione medesima, costituisce un comportamento illecito lesivo del diritto alla prestazione e come tale generatore di responsabilità dalla parte della pubblica amministrazione".
Per calcolare il danno, i giudici sono partiti dal 2014, ipotizzando come ragionevole per lo sgombero un lasso di tempo di 9 anni dal primo accesso dell’ufficiale giudiziario del 2005. Da qui è stato fissato a 30 euro al metro quadrato l’anno il presunto valore locativo, da moltiplicare per i 10.130,50 metri quadrati del Leoncavallo. Risultato: 3,039 milioni di euro. Resta da capire se il Viminale sceglierà di pagare o di ricorrere in Cassazione.