Filippo Turetta non merita l’ergastolo, dicono i suoi legali. Non è Pablo Escobar, aggiungono. Gli stessi parlano anche di pena inumana e degradante, di un sistema che non rieduca. Parole che pesano ancor di più come macigni all’indomani della giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Dunque, fermiamoci un attimo: settantacinque coltellate. Settanta. Cinque. Gli avvocati dell’assassino di Giulia Cecchettin ci dicono che non c’è stata crudeltà. E ci dicono che non c’è stata premeditazione nonostante la lista compilata prima di commettere il brutale femminicidio: "Fare il pieno, poi scotch, corde, spugna bagnata e coltello". Turetta sapeva bene dove voleva arrivare.
Eppure, la definiscono "emotività". Settanta coltellate non sono emotività. Sono cancellazione. Sono distruzione. Sono la volontà di eliminare Giulia non solo come persona, ma come pensiero, come ricordo.
Sul computer di Filippo c’era una cartella
dedicata a lei. Il ragazzo annotava quanto spendeva di benzina per andarla a prendere a casa e per comprarle il gelato. Trascriveva persino quante volte si sedeva accanto a lui all’università. Perché, per lui, Giulia non era una compagna: era un investimento. E quando quell’investimento non ha più
funzionato, l’ha eliminata.
Turetta ha fatto benzina con i soldi sporchi del sangue di Giulia. Ha iniziato una fuga che non si è fermata per pentimento, ma perché è rimasto senza carburante.
"Giulia non aveva paura di Filippo", dice ancora la difesa. Non aveva paura perché è andata a quell’ultimo appuntamento. Ma come poteva immaginare? Come poteva sapere che quell’uomo, che lei voleva ancora comprendere, era capace di tanto? La verità è che la paura non le apparteneva. Apparteneva a lui. Paura di perdere il controllo. Giulia non era sua. Non era mai stata sua perché aveva scelto di appartenere solamente a se stessa. Per Filippo, però, tutto quello che lei diceva diventava una promessa, un vincolo. Come testimoniano i 15 punti annotati dalla giovane sul diario. Una lista che le serviva come promemoria sul perché doveva lasciarlo.
Giulia non ha avuto modo di difendersi. Di scappare. Di salvarsi. È vero. La nostra Costituzione dice certamente che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato, ma ciò non significa che quest’ultima debba o possa essere un regalo. Al contrario, deve essere un percorso. E deve iniziare lì dove lui si trova: dietro le sbarre.