Roma, 27 gennaio 2024 – Edith Bruck, che cosa ricorda del giorno della sua liberazione?
"Ricordo tutto, ogni minuto. Era il 15 aprile 1945, a Bergen-Belsen. Il ricordo più importante è che per la prima volta mi sono vergognata di essere nuda. Quando i soldati americani sono arrivati al campo, visto come eravamo ridotte, ci hanno spogliate, lavate, riempite di Ddt e per la prima volta ho provato vergogna. Ero rimasta nuda tante volte di fronte ai soldati tedeschi, per tutto l’anno di prigionia, ma non mi ero mai vergognata".
Che cos’era cambiato?
"Si vede che non consideravo i tedeschi come esseri umani. L’unica spiegazione è questa".
Edith Bruck, nata in un piccolo centro dell’Ungheria nel 1931, all’epoca si chiamava Edith Steinschreiber ed era entrata nel girone infernale dei lager nazisti nella primavera del ‘44. Era stata deportata ad Auschwitz con i genitori, i fratelli e altri familiari. Prima di Bergen-Belsen, era passata per Dachau e altri campi. Si salvò, insieme con la sorella Adele. Oggi, a 92 anni, prosegue nell’impegno iniziato decenni fa: testimoniare, testimoniare, testimoniare. L’ultimo suo libro – I frutti della memoria (La nave di Teseo) – è una raccolta di lettere, scelte fra le tante che migliaia di studenti le hanno scritto nel tempo.
Edith, lei, con la sua testimonianza, ha dato molto a generazioni di studenti. E loro che cosa hanno trasmesso a lei?
"Mi hanno trasmesso prima di tutto la loro voglia di sapere, mi hanno donato il loro ascolto. Questo è molto importante, perché dopo la guerra nessuno ci ascoltava. Quando volevamo raccontare la nostra esperienza nei lager, gli altri ci dicevano: anche noi abbiamo sofferto, e si giravano dall’altra parte, come se fosse stata la stessa sofferenza. Era un clima pieno di veleni e di tristezza. Io volevo parlare. Così, già nel ‘46, ho cominciato a scrivere, e dopo la pubblicazione in Italia del mio primo libro, nel 1959, ho iniziato a testimoniare nelle scuole. Devo dire che l’ascolto è stato una consolazione, una speranza. All’inizio anche una terapia".
Il Giorno della Memoria quest’anno cade in un momento drammatico, con la guerra in Europa, la guerra a Gaza. Quali sono i suoi pensieri?
"Sono pensieri di desolazione. Da quando sono al mondo, da qualche parte c’è sempre stata una guerra. L’uomo non impara nulla dai propri misfatti e ricomincia sempre da capo. Non si riesce a vivere in pace, forse perché l’uomo non riesce a essere in pace neanche con sé stesso".
Israele intanto è accusato di genocidio e c’è un procedimento al Tribunale dell’Aja.
"Per me è agghiacciante. Non si può processare Israele per genocidio, il genocidio è un’altra cosa, con motivi diversi, circostanze diverse. Anche i palestinesi paragonano la situazione attuale a Gaza con quello che abbiamo vissuto noi, ma non è la stessa cosa. Il 7 ottobre scorso Hamas ha commesso atrocità impressionanti: hanno stuprato, ucciso, tagliato teste, una cosa folle. Il fatto è che ormai non riusciamo nemmeno a indignarci abbastanza, siamo quasi abituati alla crudeltà più mostruosa. Può darsi che la reazione di Israele sia esagerata, e mi dispiace molto per ogni vita perduta, che sia palestinese, israeliana o italiana, di qualsiasi nazionalità o appartenenza religiosa. Ogni vita è preziosa, e invece la vita, in quest’ultimo periodo, è costantemente svalutata. Chi non ha rischiato la vita, come ho fatto io per un anno intero nei lager, non sa che cosa vuol dire avere voglia di vivere a ogni costo, anche aggrappandosi a un singolo filo d’erba. Molte volte mi hanno chiesto: che cosa l’ha tenuta in vita? Io dico: la vita. La luce. La vita".
Lo storico Giovanni De Luna ha scritto che la ricorrenza del 27 gennaio, la liberazione di Auschwitz, concentra l’attenzione sulle vittime e finisce per oscurare le responsabilità dei carnefici. Per lui sarebbe stato meglio scegliere la data del 16 ottobre 1943, il rastrellamento nel ghetto di Roma.
"Non sono d’accordo. È più importante il 27 gennaio: la liberazione implica anche la prigionia. E comunque non si parlerebbe mai abbastanza dei colpevoli. La razzia nel ghetto di Roma è stato solo un episodio nel disastro avvenuto in tutta Europa. È vero però che alla fine tutto si concentra attorno a una data, mentre per me il Giorno della Memoria è ogni giorno, lungo tutto l’anno, per quanto raccontare sia doloroso. Io ancora mi emoziono, molte volte piango e spesso anche i ragazzi piangono con me".
Se alza lo sguardo all’Europa, che cosa vede?
"Vedo un disastro. L’Europa va a destra, l’antisemitismo cresce, i popoli vengono manipolati dai potenti, e io penso a quante volte in passato abbiamo visto la gente applaudire i dittatori. Il fatto è che la democrazia è sempre il frutto di un cammino lungo e impegnativo e ancora non siamo riusciti a realizzarla pienamente. Siamo, in fondo, ancora un po’ razzisti, fascisti, antisemiti. Eternamente".
C’è una via di uscita?
"Quando vedo questo tsunami di antisemitismo, queste guerre che continuano – per me non ci sono guerre giuste – non so più a che cosa aggrapparmi. E però so anche che il buio non è mai totale. L’ho sperimentato nei campi, quando mi sono aggrappata a un soldato che per una volta mi ha guardata con occhi umani, facendomi comunque sentire una persona. Qualche luce arriverà anche stavolta".