Clio Maria Bittoni, per due volte moglie della Repubblica, sapeva che sarebbe andata così. Una lunga storia d’amore, più di sessant’anni insieme: “Non ho mai pensato che la nostra fosse una unione destinata a non durare. Abbiamo sempre avuto una vita familiare molto intima, ad esempio abbiamo sempre lavorato nella stessa stanza: a lui non dà noia se, mentre sta scrivendo, io parlo al telefono con qualcuno”.
Il matrimonio in Campidoglio a Roma nel 1959, tutta la vita insieme a condividere pane, politica e la gioia di due figli. Sempre accanto all’uomo più grande di nove anni che si definiva "un monogamo accanito” e “un padre moderatamente severo”, molto più pacato di lei che invece sapeva alzare la voce.
Anche pignolo: "Giorgio è metodico, ama precisare tutto, ti corregge quando parli”. Quel giorno di maggio 2006 che l’avrebbe spedita per nove anni al Colle, la signora Napolitano, assisteva a Montecitorio ai lavori del Parlamento riunito in seduta congiunta: tailleur blu, cappellino scuro, la nipotina al fianco. Presente come sempre, fedele a un’idea. “Non avrei mai potuto sposare un uomo che, in linea generale, non la pensasse come me. E non ho mai dovuto combattere per tenermelo, e dove andava?”.
Laici, attenti ai valori della solidarietà, frastornati dal caso Englaro e dalla necessità di una regolamentazione del fine vita. Amanti del teatro, europeisti, attoniti di fronte ai Paesi che alzano “muri e reticolati" e restano membri della Ue. Vicini ma non sovrapponibili, a differenza di certe coppie che finiscono per parlare al plurale. Lei un passo indietro nei viaggi ufficiali e nelle occasioni istituzionali, elegante con le sue giacche di pizzo di Lella Curiel e i gioielli antichi ma capace di osare scarpe sportive viola shocking in tono con l’abito al vertice milanese Asia-Europa.
Esageratamente chic se è vero che prima di diventare first lady gettava l’immondizia nei cassonetti vicino alla Banca d’Italia ma dentro le buste di boutique, più decorose di quei brutti sacchetti di plastica. In una delle poche lunghe interviste (a Paola Severini, per il libro Le mogli della Repubblica) ha scherzato sul fidanzamento: “Vivevo con un'amica in una stanza in affitto in un appartamento privato, mangiavamo solo cibo di rosticceria, m'erano venute le macchie di fegato sul collo. Quando Napolitano cominciò a invitarmi a cena, a casa mia dissero che m'aveva preso per fame”.
Si specializza in diritto del lavoro in un città in cui gli avvocati donna si contavano sulle mani e a Napoli, all’università, conosce Giorgio. Poi lo ritrova a Roma alla fine degli anni Cinquanta dove faceva pratica in uno studio legale e la dieta era un po’ così. Di lì in poi molti ristoranti e la stessa strada, ma in autonomia: "Una volta – ha raccontato – con Giorgio andiamo ad Acerra, lui doveva partecipare a un’iniziativa di carattere politico, c’erano tanti agricoltori con cui avevo avuto a che fare e cominciarono a dire ’vedi, quello è il marito dell’avvocato nostro’”.
Erano in sintonia sulle cose belle e sul filo dell’indignazione come "il flagello spaventoso e sbalorditivo del femminicidio” che secondo l’ex presidente era la cifra “di un Paese dilaniato”. Amavano il cinema, il teatro, la musica. Ma si compravano il biglietto, come la volta in cui lei si mise in fila per vedere una mostra d’arte su Vermeer alle scuderie del Quirinale. Furono d’accordo anche sulla scelta di non battezzare i loro bambini: Giovanni nato nel ’61 e Giulio, otto anni di meno, che andava alla materna con il terrore dell’angelo custode perché la maestra diceva che gli stava sempre alle spalle e di notte anche sotto il letto. Mamma e papà non erano contenti, dissero di smetterla con quella storia, ma anche in quel caso lui lasciò la sua Clio che si accendesse una sigaretta e la convinse a non fare scenate.