Milano, 29 novembre 2024 – “Si attraggono lavoratori da tutto il mondo, non si pensa ai loro figli. Le disuguaglianze nascono a scuola”. Francesco Billari, demografo e rettore dell’Università Bocconi, parte da qui per analizzare il caso Corvetto.
C’è un effetto-banlieue a Milano, secondo lei?
“Bisogna distinguere l’emergenza, che non va trascurata, dai bisogni sul lungo periodo. L’emergenza può offrire una visione, ma il rischio è che si agisca sulla spinta dell’immediato offuscando il vero problema. Rispetto alle banlieue le differenze sono storiche: nelle periferie parigine si concentrano gli abitanti delle ex colonie francesi. Milano e le grandi città europee come Londra, Amsterdam e Berlino, sono multietniche: gli stranieri si concentrano nelle regioni di successo. L’errore è pensare che non si vogliano integrare e che sia un problema culturale loro. Il 13% dei nuovi nati in Italia è di origine straniera: non possiamo non pensarci, sono nostri figli”.
Inquadriamo il Corvetto con le lenti della demografia.
“È un quartiere che cresce, giovane. La maggioranza dei nati ha almeno un genitore straniero: il 50,8%. L’età media della popolazione è di 46 anni, i giovani tra i 15 e i 34 anni sono il 21%, gli stranieri il 27%. La popolazione è molto eterogenea: egiziani al primo posto (5.695 nel 2023), seguiti da filippini (4.588), peruviani e romeni”.
Si sono creati ghetti?
“Sin dai tempi di “Rocco e i suoi fratelli“. Ma perché è stato uno dei primi quartieri di approdo per chi arrivava dalle regioni del Sud. Il problema è consentire la mobilità sociale, l’aspirazione”.
Cosa ne pensa delle rivolte dopo la morte del giovane Ramy?
“La violenza oltre a essere esecrabile non aiuta le cause. Far sentire la propria voce è naturale per qualsiasi comunità, soprattutto per chi si sente escluso. I giovani lo hanno sempre fatto nel corso della storia: ora sono pochi e il compito di noi adulti è di ascoltarli”.
Il presidente della comunità egiziana di Milano, Aly Harhash, dice che sono nati qui ma si sentono stranieri.
“È così. Tanti ragazzi crescono qui ma devono aspettare i 18 anni per essere considerati italiani. Difficile costruirsi un’identità, sentirsi parte del proprio Paese, se si è considerati diversamente. I dati Ismu ci dicono che, tra gli studenti stranieri, il 67,5% è nato in Italia. Credo che lo Ius Scholae sia necessario e rimetta al centro della crescita di questi ragazzi la scuola. Che però deve cambiare”.
Perché secondo lei le disuguaglianze nascono qui?
“Guardiamo i dati Invalsi: gli stranieri di prima generazione finiscono le scuole medie con un ritardo di due anni in italiano e la cosa tremenda è che le seconde generazioni sono in ritardo di un anno. Sappiamo che poi, alla fine delle medie, c’è la “forca caudina“: i percorsi scolastici non danno le stesse possibilità. Si troncano sul nascere carriere e molti vengono orientati su scuole meno ambiziose”.
Il tasso di dispersione scolastica è preoccupante.
“Chi ha background migratorio ha più probabilità di finire tra i Neet, che non studiano né lavorano. C’è però un altro dato interessante: con l’inglese le prime e seconde generazioni di stranieri performano meglio degli italiani. Il background migratorio può essere un vantaggio quando si riesce a farlo fiorire. La scuola può e deve invertire la tendenza, lo si è visto con il metodo Montessori al Gallaratese. Ripartiamo da qui e da Don Milani: siamo l’ultimo Paese al mondo che può permettersi di sprecare talenti e potenziale”.