Anarchico, libero, vagabondo. "Mia nonna era gitana, e io qualche cosa da lei ho preso. Sono un nomade, uno che non sa stare fermo. Ho fatto film in cento paesi diversi, interpretando personaggi di trenta nazionalità. Prima del lockdown, prendevo cento voli all’anno. Non mi ha mai fatto paura: neanche quando mi dicevano ‘prenderai un piccolo aereo a sette posti che atterra su una pista di sterrato…’. È tutta vita, e io sono sempre stato affamato di vita".
Affamato di vita reale, Franco Nero. E di contro, non ha mai messo un dito su un computer. Non ha Netflix, dice, e non ci tiene. Il cinema per lui, è uno schermo grande. Fra pochi giorni, il festival "Capri, Hollywood" presenterà, in anteprima streaming, tre nuovi film che ha interpretato, in giro per il mondo. "Il direttore, Pascal Vicedomini, mi vuole in collegamento Skype: ma le interviste non riesco a farle davanti a un computer".
Senza computer e senza Netflix, ma con una filmografia da leggenda. Tutta intorno al suo volto da eroe, al suo cipiglio da valoroso. Gli occhi chiari puntati sull’infinito, la barba bionda, il fisico imponente, la mascella decisa. John Huston vide delle sue foto, in una bottega di via Margutta, e lo scritturò per "La Bibbia": era il 1966. Sergio Corbucci ne fece il suo Django, talmente mitico che, mezzo secolo dopo, Quentin Tarantino chiamò Franco Nero per un cameo spassoso e memorabile, a interpretare il Django originale, unico. Diffidate dalle imitazioni. Lo raggiungiamo al telefono, a Roma, a casa della sorella.
Franco Nero, Hollywood è stata a lungo la sua seconda casa. Quale personaggio, attore, regista, ricorda con più affetto?
"Quelli con cui sono andato a pesca. Andavo a pesca con Burt Lancaster, che all’epoca voleva a tutti i costi imparare l’italiano. Dopo aver recitato con Visconti, stava per fare ‘Novecento’ di Bertolucci, interpretare un proprietario terriero padano. Io fui il suo ‘insegnante’. E pescavo tanto con il mio amico regista Paul Mazursky. Andavamo a Marina del Rey, sotto Venice Beach, posto formidabile, vero".
A Hollywood ha conosciuto tutte le star del cinema classico.
"La sera ci si incontrava con James Stewart, Paul Newman, Steve McQueen. Dopo cena, facevamo le charade, gli indovinelli sul cinema: ma venivamo sempre battuti tutti da un ragazzino, che a vent’anni aveva già fatto un film. Si chiamava Steven Spielberg. Lui, sui film, sapeva tutto. Sui film interpretati da Paul Newman, ne sapeva più di Paul Newman".
Come fu l’inizio, per lei?
"Avevo 22 anni, avevo abbandonato gli studi e facevo l’aiuto fotografo a Roma, in via Margutta. Un giorno in quello studio arrivò il fotografo della De Laurentiis. Volle farmi qualche foto, e quelle foto arrivarono sulla scrivania di John Huston. Mi convocò al Grand Hotel a Roma".
Come fu il provino?
"Uno shock. Mi disse ‘vieni vieni, adesso spogliati’. Nudo? ’Certo, nudo!’ Non capivo. Ma per fare La Bibbia, doveva inquadrare attori a petto nudo. Così il mio primo provino fu uno strip".
John Huston fu importante per lei?
"Fu tutto. Mi disse che dovevo imparare l’inglese, per poter lavorare a Hollywood. E io, che non sapevo una parola, imparai a memoria i versi di Shakespeare, pur senza sapere che cosa stavo dicendo".
Le servì?
"Quando Joshua Logan mi voleva per interpretare Lancillotto, mi disse ‘no, ragazzo, il tuo inglese è troppo povero’. Ero già sulla porta, quando gli dissi: ‘Però so Shakespeare a memoria’. Gli declamai i versi di Shakespeare con sentimento. Mi prese".
Quel film le ha cambiato la vita.
"Sul set ho conosciuto Vanessa Redgrave, la donna che ho più amato. Ci siamo piaciuti subito, era il 1967; poi, dopo che la vita ci ha allontanato, la vita ci ha riunito. E ci siamo sposati nel 2006".
Sul set di "Camelot" incontrò anche Clint Eastwood. Che cosa vi siete detti?
"Mi invidiava, perché io recitavo in un film americano. ‘Io faccio solo spaghetti western’, mi disse. Gli dissi: vedrai che presto i ruoli si invertiranno, tu farai grandi film americani e io tornerò in Italia".
Così fu, in effetti. La Warner però voleva metterla sotto contratto per 5 film…
"Ma io dissi di no. Fra Hollywood e Salsomaggiore, preferivo Salsomaggiore, con i miei amici".
Perché?
"A Hollywood diventi ostaggio di una casa di produzione. Io voglio la libertà. Anche quando mi hanno proposto una serie televisiva, ho sempre detto di no. Mi proposero La piovra e Il maresciallo Rocca, ma io non volevo impegni così lunghi".
Ha recitato anche per Luis Bunuel, il genio del Surrealismo al cinema. Com’era lavorare con lui?
"Aveva una voce stentorea. Quando mi vedeva urlava fortissimo: NERO! Non voleva mai pronunciare la parola ‘Franco’: era il nome del dittatore della Spagna, il suo nemico giurato".
Era severo?
"Era un genio. Con momenti di grande ira. Ma era anche un bambino. Un giorno urlò sul set: ‘mi maleta, mi maleta!’. Aveva perso la sua borsa, era impazzito. Quando la trovò, la strinse al petto come un bimbo, e si allontanò. Lo seguii. Quando si sentì non osservato, tirò fuori dalla borsa il suo segreto: un panino col salame e una bottiglietta di Coca-cola in cui nascondeva del vino rosso!".
Con Reiner Werner Fassbinder, il più controverso e geniale regista tedesco del dopoguerra, ha girato Querelle de Brest.
"Quando ho lavorato con lui, Fassbinder era un mito assoluto del nuovo cinema tedesco. Mi chiamò al telefono, e rimase dieci minuti in silenzio. Io non capivo. Mi spiegarono poi che aveva bevuto tanto di quel whisky che non riusciva a parlare".
Come fu l’esperienza del set?
"Ero intimidito. Sul set c’era sempre Andy Warhol, il re della pop art. Io non mi sentivo intellettuale come loro. Ma in macchina, Fassbinder metteva sempre la musica di Modugno. E un giorno confessò di essere un mio fan; aveva tutte le videocassette dei miei film. La sera, in un ristorante a Berlino, su un tovagliolo scrisse ‘Contratto: farò con Franco i miei tre prossimi film’. Morì poco dopo, giovanissimo".
Lei ha 79 anni, ne dimostra molti di meno. Come si mantiene in forma?
"Gioco a tennis, ancora. A Monte Carlo ho giocato per 17 anni con tutti i grandi campioni, grazie al mio amico Nicola Pietrangeli. Ho giocato con Borg e con McEnroe. E ho giocato tanto a pallone, con la nazionale pugili. Non abbiamo mai perso".
Minacciavate gli avversari?
"No, vincevamo perché avevo una formazione eccezionale. Albertosi in porta, i fratelli Maurizio e Loris Stecca alle ali, a centrocampo Gianfranco Rosi e Nino Benvenuti; in attacco io e Patrizio Oliva. Una seconda punta formidabile. Io ero centravanti".
Il calcio è una passione, per lei.
"Ho giocato, per beneficenza, con tutti i campioni: anche con Paolo Rossi, anche con Maradona. Ero un grande amico di Azeglio Vicini: e grazie a lui, ho anche il patentino di allenatore, honoris causa".
Qual è l’ultimo posto nel quale è stato, prima delle chiusure?
"Sono andato a Pantelleria, dal figlio di Pasquale Squitieri, che fa il pescatore, e ci siamo messi a pescare. Come a Marina del Rey con Burt Lancaster. Certe ricciòle di dieci chili, e delle cernie meravigliose…".
L’attore a cui si sente più legato?
"A Monte Carlo, giocavamo a tennis insieme, ridevamo insieme. Era il più grande di tutti: Sean Connery".
Ma c’è davvero il progetto di un nuovo Django?
"Certo che c’è: dovevamo partire il 20 febbraio, girare in Louisiana, da una sceneggiatura di John Sayles. Per ora è tutto rimandato, ma appena sarà possibile si parte. E ci sarà un cameo per Quentin Tarantino. Promesso".