
Il Papa con l’ossigeno sulla macchina per il Vaticano
"Che brava quella signora con i fiori gialli". Nel primo sprazzo di luce, di ossigeno, nel primo raggio d’aria di una Roma pallida di fine marzo, mentre respira dopo oltre un mese di ricovero, ringrazia per un mazzo di fiori gialli. Un filo di voce, una mano che saluta, l’altra abbassata sulla gamba, il volto provato dal dolore. Papa Francesco ieri mattina ha salutato una folta folla da un balcone dell’ospedale, prima di essere dimesso dal Policlinico Gemelli per tornare in Vaticano dopo un mese ed una settimana di ricovero in cui ha rischiato la vita a causa di una polmonite interstiziale. I medici lo hanno ormai dichiarato fuori pericolo ed hanno assecondato la sua ferma volontà a far ritorno in Vaticano, dove però dovrà riposare ancora per almeno due mesi di convalescenza.
Eppure c’è qualcosa di molto profondo anche nell’agire di quest’ultimo periodo di vita di Francesco. Nella sofferenza più estrema, mentre il corpo combatteva per restare attaccato alla vita, lui sembra aver scelto di esercitare un magistero straordinario sulla fragilità. Lo fece anche Giovanni Paolo II, nell’ultimo tratto del suo cammino terreno. Con il Golgota che sta risalendo, portandosi sulle spalle la croce dell’umanità sconvolta da guerre e stravolgimenti geopolitici drammatici, mettendo a nudo la sua fragilità ci ricorda, con la solita disarmante umiltà, che nessuno in questo mondo è esente dalla vulnerabilità e il segreto per affrontarla sta nel prenderci cura gli uni degli altri.
Il Papa tornerà a Casa Santa Marta come un paziente qualunque. C’è un filo rosso che lega questo giorno al 13 marzo 2013, quando venne eletto Pontefice e si affacció alla loggia della Basilica di San Pietro come un uomo normale. Il voler apparire normale è sempre stato un punto fermo della sua opera: qualche tempo fa telefonò al parroco di Gaza come se fosse un lontano parente per manifestargli la sua vicinanza. In questi anni ha telefonato a casa di tante persone afflitte da dolori e drammi. Sette giorni fa si fece ritrarre di spalle, seduto in carrozzina, davanti ad un altare semplice, in preghiera, dentro all’ospedale come fosse un prete di periferia.
Francesco sa bene che in un mondo sconvolto da crisi internazionali e derive umane sull’orlo dell’abisso, la sua voce lieve ed autorevole è sempre ascoltata da tutti, credenti e non credenti, e nessuno come lui in questo momento sulla terra riesce ad unire i popoli, le diverse culture e sensibilità. Anche per questo ha forse voluto far ritorno a casa. Perché la sua fragilità in fondo è quella che ora sta vivendo tutta l’umanità. E se lui torna, anche solo parlando con i gesti, in mezzo al mondo, nella semplicità offre a quest’ultimo l’esempio di una cura. Perché il segreto della cura sta proprio nella condivisione della propria fragilità e della propria sofferenza con il prossimo. La richiesta di aiuto. Nessuno si cura da solo, ma guarisce nell’altro e con l’altro.
Ecco perché in quella mano che saluta, in quel ringraziamento a quella donna con i fiori, si cela una bomba con una forza universale che vince ogni morte e che nessuna potenza atomica potrà mai sperimentare: è quella dell’amore. Perché nonostante tutto il bene è ancora nella maggioranza, ma non si nota perché è silenzioso. Un ordigno fa più rumore di una carezza, ma per ogni bomba che distrugge, ci sono milioni di carezze che nutrono la vita. Basta una carezza a un bambino. Basta un mazzo di fiori gialli portati ad un uomo che soffre in una pallida domenica di marzo e che sta facendo ritorno a casa.
Quell’uomo normale, è il Papa. E anche da qui può iniziare una nuova civiltà.