Diciotto anni fa, in occasione della redazione del mio libro ‘Le Mogli della Repubblica’, ho conosciuto Flavia Prodi. A lei ho dedicato il capitolo ‘Siamo cresciuti insieme’. Dal maggio 2005, data del nostro primo incontro, è nata un’amicizia straordinaria che ci ha viste, nei diciotto anni seguenti, vicine in tante occasioni. In questi anni il nostro Paese è cambiato moltissimo, ma lei è rimasta la donna di straordinaria normalità che avevo conosciuto e che avevo apprezzato fin dal primo momento, una compagna senza la quale Romano non avrebbe potuto mai diventare Presidente del Consiglio per ben due volte, una mamma attenta e affettuosissima, una super nonna. Ma, quello che mi ha legato fortemente a lei, è stata l’enorme stima per il suo lavoro di docente nell’ambito del mondo del Terzo Settore.
Per comprendere lo stile di una donna bisogna aver visto e frequentato la sua casa: la casa di Flavia e Romano è a Bologna, nel centro storico, una palazzina incastrata in una stradina che porta a una grande piazza, piena di ragazzi e ragazze che la vivono durante tutto l’anno. La casa è stracarica di libri e la cucina è esattamente come la mia, collegata alla sala da pranzo da una finestrella che assolve perfettamente la sua funzione: quella di unire gli ospiti ancor più strettamente con la famiglia.
Sì, la famiglia, perché
Flavia si sposa a soli 22 anni e g uardare le foto del matrimonio fa tenerezza, sembra, con il velo corto, più una bambina alla prima comunione che una donna, perché lei si fidanza ancora al liceo prima di scegliere l’università, nel ‘65. Queste le sue parole: “Mi sono iscritta prima del ‘68, perciò, prima dell’esplosione dell’interesse ai problemi sociali. Erano tempi però in cui si cominciava a pensare che le scienze sociali avessero una loro “dimensione scientifica”, perciò, nella mia testa, pensavo una cosa strana, cioè che avrei applicato la mia passione per la matematica, la mia passione quantitativa, nelle scienze sociali”.A questo punto le chiesi se era importante la stima nel rapporto di coppia, prima della passione, dell’amore (e in quel momento Romano la guardò, letteralmente adorante) e lei mi rispose: “Soprattutto è importante per chi poi ha scelto una carriera e un percorso di vita come ha fatto Romano, perché se non si hanno interessi comuni, e anche in qualche modo la stima, si ha poco tempo per stare insieme. Cioè avere interessi comuni ci ha anche restituito del tempo per stare insieme. Noi abbiamo sempre coinvolto moltissimo i figli nella nostra vita, questo living room, è sempre stato pieno di amici, di persone con cui si lavorava, e loro si sono abituati a questa vita un po’ in confusione che abbiamo sempre fatto, e credo che abbiano imparato molte cose. Sono stati molto con noi, ce li siamo sempre tirati dietro. La politica nella nostra famiglia è arrivata tardi, perché è entrata nel ’94 quando i miei figli erano già grandi. Antonio è nato nel ’74, quindi aveva già vent’anni, mentre l’altro è più grande. Perciò, quando è entrata la politica, i ragazzi erano già completamente autonomi. Romano è poi stato pochi mesi ministro dell’Industria nel 1978, solo quattro mesi, ma non me ne sono neanche accorta, non ho modificato niente della mia vita. Piuttosto il periodo in cui è stato all’Iri è stato più pesante, perché noi non siamo mai andati a stare a Roma, io andavo avanti e indietro da Bologna, e i ragazzi sono rimasti sempre qui”.
L’Iri è coinciso con il periodo delle Brigate rosse.
“Sì, infatti è stato il periodo in cui abbiamo cominciato ad avere, cioè Romano ha cominciato ad avere una scorta che lo accompagnava, e certo ha portato qualche limite nella tranquillità e nella facilità di movimento”.
Voi vivete poi nella città dove è morto Marco Biagi, che vi era anche vicino come formazione, come estrazione.
“Ma certo. È stato collega di mio marito, collaboratore di Romano a Bruxelles, ma soprattutto eravamo amici strettissimi di Roberto Ruffilli, che ha dormito in questa casa tante volte”.
Quanto ha inciso tutto questo? Quando parlavamo della sicurezza, non della privacy, il dover mettere la propria vita a disposizione un po’ di tutti e, forse, anche a rischio?
“Questa è una cosa su cui non ho ricordi da raccontare, anche perché poi nonostante questi eventi, a Bologna – noi abbiamo sempre vissuto a Bologna – noi abbiamo continuato a fare le cose di sempre, perché non volevamo che i nostri figli, i ragazzi, dovessero avere dei problemi legati alle nostre scelte, per cui no, non l’ho sentito un peso particolare se non, ovviamente, il dolore per le persone che sono morte”.
A questo punto non parliamo più di restrizioni della privacy, perché mi sembra che per voi questo non è neanche quasi accaduto.
“Non so dire, io credo che l’aver continuato a vivere a Bologna, l’aver continuato la vita di sempre, come abbiamo fatto, abbia fatto sentire meno i cambiamenti che pure ci sono stati, per altri aspetti della vita. Abbiamo continuato a uscire il sabato pomeriggio per fare la solita passeggiata, il centro di Bologna il sabato pomeriggio è bellissimo, è divertente, si incontrano tutti e questo mi ha molto aiutato. E poi Bologna è una città molto rispettosa, non è che se passi per la strada – anche quando era primo ministro – nessuno ti ferma o ti chiede delle cose”.
A proposito del periodo di governo, voi avete vissuto nei palazzi del potere. Non potevate più stare a Bologna.
“Sì, ma proprio perché avevamo vissuto sempre a Bologna, non avendo avuto casa a Roma fino al momento delle elezioni, abbiamo deciso di andare a stare dentro Palazzo Chigi, dove non era mai stato nessuno. C’era un appartamento, in realtà ricavato in mezzo agli uffici, credo che fosse stato predisposto in anni molto lontani da Fanfani. Il governo l’aveva risistemato, ma era più un punto d’appoggio. Ma noi invece ci siamo andati a stare, io e Romano, sistemare l’appartamento è stata una cosa strana, poi. Avevamo una camera da letto, e un salone grande come quattro volte questo salotto, avevamo uno studio, avevamo le due stanze di rappresentanza dove avvenivano eventualmente i pranzi ufficiali, però se doveva restare lì a dormire un figlio ho dovuto prendere una brandina e infilarla nello studio, perché non era predisposto per una famiglia. Era talmente comoda la vita organizzata così, che abbiamo scelto di stare lì, appunto perché non c’era il problema di sicurezza di chi accompagnava, gli orari del presidente del Consiglio sono terrificanti, si può finire anche tardissimo, in fondo ‘casa e bottega’ in questo caso era comodo. Alle otto andavo giù nell’anticamera dell’ufficio a vedere cosa succedeva e aspettavo che finisse, e poi andavamo su a mangiare qualcosa. Tanto per dire: io avevo una stanza, anzi dall’ingresso c’era una porta che dava direttamente nella grande sala riunioni che si vede sempre alla televisione, dove fanno le trattative con le forze sociali; era chiusa, naturalmente, io non potevo andarci. Era come un punto d’appoggio molto bello in mezzo agli uffici, non un appartamento di rappresentanza, io prendevo l’ascensore con gli impiegati di Palazzo Chigi, la gente andava a lavorare e scendeva ai vari piani, e all’ultimo piano scendevo io”. (Non dimenticherò mai quando Flavia mi fece visitare la cucina di Palazzo Chigi, e poi
andammo a prendere l’autobus a Piazza del Parlamento ndr).
Nonostante aver scelto di restare professore a contratto, aver lavorato in un centro di ricerca, collaborato a molte riviste, dichiarava che si era “sì, costruito un lavoro che mi ha dato molte soddisfazioni, ma che non era presentabile come carriera e questo per facilitarmi la vita perché non si può fare tutto, io volevo star dietro a tutta questa situazione: i figli e il marito”.
Quindi io le chiesi: “Nel 1994, comincia l’avventura politica vera e propria. C’era stato un piccolo intervallo come ministro, durante un governo Andreotti, un’esperienza molto breve. C’è stato un arricchimento culturale, durante questo periodo di politica ‘vera’? Lei rispose: “Ho imparato molte cose, mentre mio marito faceva politica, seguendolo e aiutandolo un po’. Anche forse per il modo in cui è cominciata, la storia è un po’ strana e divertente: le racconto per esempio come sono nate le famose Tesi, che rappresentano il librettino verde del programma elettorale del 1996. Un mio ex compagno di università, Andrea Papini, che poi è diventato senatore, un giorno è arrivato qui, era appena stato eletto Berlusconi, cominciavano ad esserci un po’ di riflessioni sul da farsi, e disse: “Romano, fammi fare un esperimento. Raccontami quello che pensi di tutti i più vari argomenti, perché se tu entri in politica ti voglio dare una mano, poi forse potrei essere interessato a fare qualcosa di marketing politico”. Lui era un consulente di imprese, per cui pensava forse di poter fare un lavoro del marketing politico. Cominciò su ogni argomento a fargli una serie di domande: “Su questo argomento hai un pensiero tuo, su questo non ne sai niente, su questo devi aggiornarti”.
Nacque un primo canovaccio: la scuola, la giustizia, l’impresa pubblica, le privatizzazioni. Solo pensieri. Poi si iniziò un lavoro di colloqui, di consultazioni, per capire come era la situazione dell’Italia in quel momento. Io ho lavorato molto, ho partecipato molto a questi incontri in cui si rifletteva insieme sui vari temi. Poi questo materiale è confluito in convegni, in incontri, fino a diventare il materiale da cui poi sono state elaborate le Tesi, poi condivise da tutti i partiti della coalizione. Perciò, c’è stato un momento di studio, si potrebbe dire, che è alla base di questa esperienza politica. Io mi sono molto divertita, soprattutto seguendo le cose che mi interessavano di più”.
Uno dei giorni che non dimenticherò mai con Flavia e Romano è stato durante la prima ondata di Covid, quando ci incontrammo, in occasione di una trasmissione di ‘O Anche No’ che dovevo girare a Bologna nonostante la pandemia, e decidemmo di andare a salutare insieme - tutti bardati con le nostre mascherine di ordinanza - il Cardinale Zuppi, Arcivescovo della città (prima che diventasse il Presidente della Conferenza Episcopale), che anche lui viveva l’estrema solitudine di quel periodo, presidiando le necessità della città. Fu un pomeriggio meraviglioso, attraversammo una Bologna vuota in cui si sentiva soltanto il suono dei nostri passi.
Flavia, una donna, anzi la metà di una coppia vera, senza sovrastrutture, un modello per me e un esempio per il mondo dell’assistenza sociale e del Terzo Settore. Fai buon viaggio, ci mancherai tantissimo.