Roma, 29 aprile 2020 - "La mia proposta è di aprire un primo gruppo di regioni, con situazioni differenti a livello epidemiologico e sociale, poi gradualmente allargare al resto d’Italia". Andrea Crisanti, virologo dell’Azienda ospedaliera universitaria di Padova, ammetterebbe per la Fase 2 una correzione di rotta rispetto al piano prospettato in questi giorni, mentre le curve dell’emergenza Coronavirus continuano a calare.
Lei è stato nel gruppo di Lettera 150, i ricercatori firmatari dell’appello per la riapertura rapida in sicurezza dopo il lockdown. Che cosa teme? "Preoccupa l’idea di rimettere in moto l’Italia tutta insieme e scoprire di trovarsi impreparati di fronte a una nuova impennata di contagi. Sarebbe una disgrazia".
Che ricetta propone? "Io dico piuttosto, prendiamo tre regioni modello, come la Sardegna, il Veneto e la Basilicata, regioni diverse per tessuto produttivo, in qualche modo simili per basso numero di casi, e andiamo a testare la capacità di reazione, le dinamiche. Se c’è un focolaio noi lo andiamo a spegnere. Non solo. Vedere alcune regioni una volta aperte, sarebbe un segnale positivo per il Paese. Occorre dimostrare se siamo in grado di controllare questo virus, e come possiamo conviverci".
Insomma una riapertura per segmenti, poi progressivamente estesa al resto della nazione, con una funzione educativa. Pronti a fare da cavia? "In Veneto abbiamo avuto la capacità di contrastare la ripresa dell’epidemia, diversamente avremmo contato migliaia di morti. Ci siamo preparati per la fase 2 e ora siamo in grado, considerando tutta la rete, di viaggiare al ritmo di 18 mila tamponi al giorno. I ricoveri sono in costante calo, ci sono meno malati nel territorio".
Come prevenire la seconda ondata? "Nell’approccio che potrei definire goccia a goccia, sembra di cogliere una prudenza sinonimo di incertezza, incapacità a prevedere che cosa succederà. Ecco perché sarebbe opportuno fare un test, prendendo tre regioni a rischio potenzialmente basso, e aprire naturalmente con regole ferree. Vedremo così che cosa ci aspetta quando sarà riaperta l’Italia tutta intera. Saggiamo prima la capacità del sistema sanitario di intervenire su una cerchia ben delimitata, e di fare tamponi. Anche la app, un conto è testarla su una cerchia di tre milioni di utenti, altra cosa testarla subito di botto su cinquanta milioni di persone".
Lei parlerà oggi di terapie Covid al webinar di Motore Sanità. I numeri dell’Italia? "Ieri c’erano tanti casi quanto l’8 marzo, con l’unica differenza che allora eravamo all’inizio dell’epidemia, oggi siamo tutti chiusi in casa. Nessuno conosce, su larga scala, l’impatto delle mascherine, del distanziamento sociale o di altre misure. Noi conosciamo sostanzialmente i numeri delle persone che varcano la soglia dell’ospedale. Ignoriamo il sommerso. Ci chiediamo quanti sono quelli a casa con il Coronavirus senza nessuno che vada a visitarli, quanti sono quelli senza tampone, e quanti gli asintomatici".
L’errore da evitare? "Far ripartire l’Italia tutta insieme andando alla cieca, rinviando tutto ai primi segnali di allarme. Aspettavamo il 4 maggio come la Liberazione, sembra invece che succederà poco. Occorre puntare sulle differenze".
A Tel Aviv una manifestazione di piazza coi dimostranti distanti due-tre metri uno dall’altro. Negli spazi giusti si potrebbero riprendere le celebrazioni religiose, i concerti di musica da camera, gli appuntamenti al cinema o in teatro? "Perché no, da addetto ai lavori direi che aperture mirate, in condizioni di assoluta sicurezza, andrebbero fatte, non mi spaventano. Sarebbero un segno di civiltà".
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