Finalmente la soluzione all’estenuante giallo durato oltre 40 anni, o sarà l’ennesimo buco nell’acqua destinato a riaprire ferite, delusioni e amarezze, come troppo spesso avvenuto in questo percorso lastricato da false piste e depistaggi?
È tale la tensione in queste ore della famiglia Orlandi, colta di sorpresa dalla apertura di una inchiesta vaticana sulla scomparsa di Emanuela, che la legale della famiglia, Laura Sgrò, fa sapere che le chat in suo possesso tra due ex alti collaboratori di papa Francesco in cui si parla proprio di Emanuela, le consegnerà "personalmente" al promotore di giustizia vaticano Alessandro Diddi.
Si tratta, in effetti, del vero “tesoretto” indiziario in possesso della famiglia, quello di alcuni screenshot di chat da cui emergerebbero elementi tali da comprovare che la verità su Emanuela sta proprio in Vaticano. "Questi Whatsapp tra due persone molto vicine a papa Francesco sono del 2014. Parlano di Emanuela, di documenti di Emanuela, ne parlano come fosse una cosa grave come se il problema fosse cogente, da risolvere in quel momento, parlano di georadar, di come pagare i tombaroli. Fanno riferimento anche al cardinale Abril e a un inventario da preparare", dice Pietro Orlandi .
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L’altro elemento che lo porta a dire ormai con sicurezza ad ogni occasione che questa verità la conoscerebbero tutti i Papi che si sono succeduti da Wojtyla in poi, è nel passaggio di consegne del famoso scatolone bianco, contenente i risultati delle indagini dei tre cardinali-detective sul Vatileaks e che, dopo la storica rinuncia, lo stesso Papa Emerito Benedetto XVI consegnò a favor di camera a Papa Francesco.
E poco importa che nel libro-biografia "Nient’altro che la verità" in uscita oggi, il segretario storico di Benedetto XVI monsignor Georg Gaenswein neghi di aver redatto alcun dossier su Emanuela (mentre conferma però, nero su bianco, gli incontri avuti a piazzale Clodio su mandato del Pontefice emerito per definire i dettagli dell’apertura della tomba di Renatino de Pedis nella basilica di Sant’Apollinare).
Pietro Orlandi è convinto piuttosto che da quello scatolone, l’attuale Papa abbia attinto tutte le consapevolezze necessarie e che il deposito delle chat aprirà piste investigative importanti. Né lui, né la tenace avvocatessa Sgrò hanno mai voluto rivelare l’identità degli autori delle chat. Il cerchio si stringe però attorno a Francesca Chaouqui, nel 2013 nominata a sorpresa con un incarico di pubbliche relazioni in Vaticano, poi finita a processo per furto di documenti e infine condannata con pena sospesa. In Vaticano tutti sanno che come membro della commissione Cosea, Chaouqui insieme al suo mentore, monsignor Lucio Vallejo Balda, anche lui finito a processo e da anni ritiratosi a una vita di silenzio e preghiera, aveva accesso a una grandissima quantità di documenti riservati.
Per un certo periodo si parlò anche di falsificazioni di documenti come quando furono apposti finti timbri col sigillo vaticano per una grande festa su una terrazza di via della Conciliazione per la canonizzazione di Wojtyla e Roncalli, foraggiata da danarosi sponsor. Chaouqui comparirà proprio domani di nuovo nel tribunale vaticano, per essere sentita questa volta come testimone nell’ambito del processo sul palazzo di Londra.
Nel corso del dibattimento, infatti, è emerso che sarebbe stata lei a condizionare il grande accusatore del cardinale Angelo Becciu, l’ex amministratore dei fondi della Segreteria di stato, monsignor Alberto Perlasca, e per questo potrebbe essere sottoposta anche a un confronto all’americana con Genoveffa “Genevieve” Ciferri, una laica sorta di protégé dello stesso Perlasca.
Se davvero è lei l’autrice delle chat, scriveva il vero o era l’ennesimo bluff?