Roma, 24 luglio 2023 – “Credo che questa indagine abbia subito una vera intossicazione, una serie infinita di fumogeni lanciati per rendere impenetrabile l’accesso alla verità stessa. Fumogeni lanciati non per proteggere chissà quale cardinale, Papa o presidente del mondo, ma per ricattare, fare pressioni nell’ambiente vaticano, affinché si esercitassero dei poteri all’interno di dinamiche soprattutto finanziarie che c’erano tra soggetti criminali e lo Ior". A parlare del caso Orlandi è il giornalista e saggista Gianluigi Nuzzi, autore di best seller sul Vaticano come ’Sua Santità’ o ’Vaticano S.p.a.’.
Nuzzi, ci aiuti a districarci tra le nebbie del caso Orlandi.
"In questa vicenda considero il Vaticano come istituzione, non come uomini, e come parte lesa. Naturalmente in maniera del tutto diversa dalla famiglia Orlandi, ma molti depistaggi non hanno avuto lo scopo di coprire personaggi eccellenti ma di ricattare e minacciare. C’è un punto a tutt’oggi trascurato ma interessante".
Quale?
"Prima che arrivi papa Francesco, accade che allo Ior chiudano centinaia di conti privati, conti non riconducibili a enti o soggetti religiosi, quindi che non avevano diritto a essere lì. Un movimento massiccio e unisono apparentemente inspiegabile. Per cambiare banca ci devono essere dei motivi, invece questa movimentazione improvvisa anticipa addirittura le dimissioni di Benedetto XVI".
Un indizio per cercare nella direzione giusta?
"Certamente. Oggi per arrivare alla verità su Emanuela è necessario ricostruire i depistaggi, trovarne gli autori, capirne le motivazioni perché solo così si può recuperare qualche filo nella matassa. Bisogna guardare ai depistaggi seriali, ci sono stati quelli dei puri mitomani, ma anche quelli di chi un brandello di verità la possedeva".
Quindi sgombrare il campo innanzitutto dalla figura ingombrante di Alì Agcà?
"Assolutamente. La pista internazionale va esclusa. Se andiamo a guardare le carte dell’inchiesta vediamo la quantità di veline anonime recapitate in mezzo mondo che a un certo punto fecero accendere la pista turca. Un caravan serraglio che poi però sfuoca la storia".
Lo stesso lei ritiene per la presunta pista familiare dopo il mezzo scoop sulla condotta dello zio, Mario Meneguzzi nei confronti della sorella maggiore, Natalina Orlandi.
"Qui il Vaticano dopo decenni di silenzi finalmente ha battuto un colpo. Incredibilmente ha trovato dei documenti che ha trasmesso alla procura di Roma e questo dimostra due cose: uno, che dei documenti c’erano al contrario di quanto affermato fino a ieri. E due, che come pista era stata già scartata".
Perché farla uscire ora?
"La storia dello zio potrebbe essere stata una mossa per far rientrare la vicenda in una dimensione familiare quindi non meritevole di una commissione di inchiesta e renderla così superflua".
Potrebbero esserci altri dossier?
"Questo ce lo può dire solo chi ha la chiave dei cassetti. Io penso che il Vaticano disponga di un’ampia documentazione solo a partire dal fatto che al rapimento aveva dedicato una linea telefonica disposta da Casaroli".
Nel 2012 entra in gioco con forza la figura di Renatino De Pedis per via dell’apertura della tomba nella basilica di Sant’Apollinare e della telefonata anonima che suggerisce di cercare lì i resti di Emanuela.
"Qui l’unica cosa interessante è che gli scavi alla tomba vengono fatti e poi interrotti. Alla repertazione delle ossa mancano diverse cassette di zinco, gli inquirenti dissero semplicemente che non erano afferenti alla famiglia Orlandi ma nessuno può dire il contrario, nessuno ha potuto fare delle controperizie. Le cassette sono state messe via e basta".
Siamo all’epoca della presunta trattativa tra procura e Vaticano di cui lei parlò per primo. Era papa Benedetto XVI.
"Anche qui ci sono punti oscuri. Il Vaticano dice che il magistrato Capaldo ha capito male, Capaldo a sua volta un poco nicchia. Che ci siano stati contatti tra lui e i vertici della Gendarmeria di allora è fatto del tutto normale. Mi interessano più i colloqui successivi con esponenti della Curia romana, su questo aspetto".
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