Roma, 15 maggio 2024 – “Un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova", scriveva Agatha Christie. Tenendo fede ai principi della regina del giallo (chi siamo noi per metterli in discussione?) gli indizi che abbiamo messo insieme provano quello che sperimentiamo ogni giorno: le politiche di genere, in Italia, non funzionano.
Non vanno bene le misure in vigore e men che meno quelle in discussione.
Cominciamo dal Family Act, mai accompagnato dai decreti attuativi, rimasto pertanto lettera morta, e arriviamo alla proposta, emersa durante gli Stati generali della natalità, di introdurre il “quoziente familiare”, una misura con cui si passerebbe dalla tassazione individuale a quella familiare, che cumula i redditi dei partner e li tassa con la stessa aliquota. Il rischio che questa misura disincentivi ulteriormente l’occupazione femminile è altissimo. Per le donne, che guadagnano nella stragrande maggioranza dei casi meno del partner, lavorare diventerà sempre meno conveniente. "L’uomo in coppia – spiega la dirigente Istat Linda Laura Sabbadini – verrà tassato con un’aliquota più bassa di quanto sarebbe se fosse solo, e la donna con una più alta".
È solo un esempio, ma è indicativo di come i processi decisionali, quando si parla di questo tipo di politiche, non vadano mai (o quasi) nella direzione giusta.
Per completare il quadro analizziamo gli indicatori su cui si fonda lo studio sul divario di genere del World Economic Forum, che sarà pubblicato a inizio giugno.
Il primo ha a che fare proprio con il lavoro e le prospettive di carriera. L’Istat ci dice che in alcune regioni, come Sicilia, Campania e Calabria, solo 4 donne su 10 in età lavorativa sono occupate o in cerca di occupazione, il resto ha deciso di abbandonare (un fenomeno diffuso, guarda caso, soprattutto nei luoghi dove gli asili nido pubblici sono pressoché inesistenti): con l’arrivo del primo figlio una lavoratrice su cinque lascia l’impiego. Difficoltà che portano le donne a fare meno figli di quanto vorrebbero (1,2 contro i 2 desiderati), anche se la narrazione vorrebbe il contrario, cioè che le donne non vogliono fare figli perché lavorano. Nei Paesi dove si investe sulle donne e sulle famiglie, la curva demografica non è in picchiata come da noi. Sempre l’Istat ci dice che in Italia le amministratrici delegate sono il 4%, che le retribuzioni, a parità di mansioni, sono più basse rispetto agli uomini (la differenza salariale, nel 2023, ha superato il 10%) e che, come conseguenza, anche le pensioni sono inferiori (del 34%).
Secondo indicatore: la partecipazione alla vita politica. Nonostante abbiamo la prima presidente del Consiglio, il ruolo delle donne nelle istituzioni è limitato, in termini di rappresentanza e di incarichi. Secondo Openpolis sono solo il 33,6%, e i loro incarichi non sono particolarmente “forti” (un ministero con portafoglio è più forte di uno senza portafoglio).
Terzo indicatore: l’istruzione. Qui le cose, apparentemente, vanno meglio. È vero che la quota di laureate fra 25 e 34 anni è del 35,5% contro il 23 dei maschi, ma si tratta di un vantaggio effimero che non si traduce, come abbiamo visto, in maggiori opportunità di lavoro, o in occupazioni meglio remunerate. Questo anche perché gli studi non si concentrano nei percorsi tecnico-scientifici a elevata competenza (solo il 20% delle donne sceglie ingegneria o informatica).
Il quarto e ultimo indicatore è legato alla sanità. Le donne si confermano più longeve, ma vivono in condizioni peggiori, a causa delle pensioni più basse percepite (che si traducono in minori possibilità di cura), e del divario nella medicina di genere. Farmaci ed esami sono formulati in base a test condotti prevalentemente su campioni maschili.
Questi indicatori, nel rapporto del World Economic Forum dell’anno scorso, avevano fatto precipitare il nostro Paese, su un totale di 146 Stati, dal 63° al 79° posto, rispetto al 2022, in controtendenza rispetto al resto d’Europa, che ha piazzato un terzo dei Paesi nei primi 20 posti. Tanto per capire la distanza siderale che ci separa dai partner europei, sappiate che l’Italia è andata peggio di Uganda e Kenya.
Gli indizi che abbiamo messo insieme fanno la prova: meglio non aspettarsi di fare passi avanti in classifica, nel prossimo report.