La crisi del settore automobilistico in Italia ne contiene in realtà due. La prima accomuna tutto l’automotive europeo. La seconda è più italiana, e più profonda, perché legata al tracollo delle vendite e alle scelte di delocalizzazione di Stellantis, oltre che alle difficoltà dei marchi tedeschi.
Stellantis è la prima emergenza. E con l’obiettivo di rilanciare la produzione e proteggere l’occupazione, negli stabilimenti dell’azienda e nelle filiere della componentistica, è urgente che il governo intervenga. Se da un lato è necessario esigere garanzie sul mantenimento della produzione e dell’occupazione in Italia, dall’altro lo è che il governo ritiri il taglio del Fondo automotive – 4,6 miliardi destinati ad accompagnare la transizione del settore – e che queste risorse siano utilizzate anche per avviare una serie di contratti di sviluppo: strumento già rodato e riconosciuto dall’Europa, da dedicare qui al co-finanziamento di progetti di innovazione nei diversi stabilimenti di Stellantis, coinvolgendo la filiera, vincolati all’impegno a consolidare o incrementare l’organico. In parallelo è urgente che l’esecutivo intervenga per finanziare ammortizzatori sociali in deroga, utilizzabili anche da imprese fino a 15 dipendenti, oggi escluse.
La crisi di Stellantis va tuttavia inquadrata in quella dell’intero settore europeo dell’auto. Crisi non certo provocata dal Green Deal, nonostante si provi a farne un comodo capro espiatorio. Si sommano piuttosto due fattori: la contrazione del mercato – dovuta a stagnazione dell’economia, invecchiamento della popolazione e stili di vita delle giovani generazioni –, e da cui deriva una condizione di sovracapacità produttiva; e un netto gap di competitività nei confronti dei produttori americani e cinesi. Questo è a sua volta dovuto a due elementi: il ritardo dei carmakers europei rispetto a Cina e Usa nell’innovazione del prodotto – che non si limita all’elettrificazione del power-train, ma integra la trasformazione dell’auto in un sistema di connettività avanzata – e l’ampio differenziale di prezzo, con i competitor avvantaggiati da sussidi pubblici, minor costo dell’energia, totale controllo della catena di fornitura ed economie di scala. Quadro complesso, quindi, che solo una demagogica semplificazione può ridurre alla polemica contro la regolazione Ue. Il mondo dell’auto è attraversato da una rivoluzione – batterie e software si avviano a rappresentare tra il 60 e il 70% del valore di una vettura – e l’Europa ha solo pochi anni per provare a restare in partita.
Non si tratta quindi di rallentare – come qualcuno chiede – ma di accelerare, ed è per questo che alla Commissione Ue chiediamo un Piano d’azione per l’automotive, accompagnato dalla creazione di un fondo straordinario finalizzato a “spingere” la trasformazione del settore, tanto sul fronte dell’offerta – con il rafforzamento di tutta la supply chain, dalle materie prime rare alla produzione di microchip e batterie, la riduzione del costo dell’energia, il potenziamento dell’infrastruttura elettrica e di ricarica, la formazione di nuove competenze – quanto sul lato della domanda, orientando l’elettrificazione delle flotte aziendali e adottando sistemi di incentivazione come il social leasing testato in Francia.
La politica ha il dovere di assicurare stabilità e certezza delle regole – il 2035 è una data da non modificare, non lo chiedono neanche i costruttori – ma anche di evitare di complicare una situazione già critica con multe miliardarie che penalizzerebbero gli investimenti per la decarbonizzazione. Quanto alla richiesta che gli obiettivi di decarbonizzazione possano essere raggiunti in condizioni di “neutralità tecnologica”, non abbiamo obiezioni di principio. La ricerca e l’innovazione vanno sempre incoraggiati. Ma vorremmo anche essere chiari: nessun costruttore europeo pensa seriamente che il futuro di questo settore non sia rappresentato dal power-train elettrico, per gli evidenti vantaggi di semplicità, comfort, manutenzione e – in prospettiva – anche di costo. I carburanti sintetici e l’idrogeno sono estremamente costosi, mentre i bio-carburanti – prima opzione per il trasporto aereo e marittimo – difficilmente saranno disponibili in quantità sufficienti ad avere un ruolo significativo nell’alimentazione dei veicoli leggeri.
Sappiamo tuttavia che nella fase di transizione un ruolo importante sarà assolto dai veicoli ibridi plug-in, e che nel 2040 la flotta in circolazione in Europa comprenderà ancora un 45% di auto a combustione interna o ibride. La riduzione delle emissioni di questo tipo di auto, con carburanti low-carbon, è dunque utile per raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione. Come evidenziato dal Rapporto Draghi, la penetrazione dei carburanti a basse emissioni potrebbe compensare una diffusione dei veicoli elettrici più lenta del previsto.
Giorgio GoriStefano BonacciniVincenzo Colla