Positivi, ma asintomatici? Niente smart working. Neanche se si sta bene e si può farlo in isolamento da casa. La prescrizione, che equipara la positività al Coronavirus alla malattia sempre e comunque, prevista dai decreti e dalle circolari del lockdown, rischia di rivelarsi un vero boomerang in queste settimane di ripresa del contagio. I costi personali (anche retributivi) e professionali per i singoli, quelli delle aziende e quelli dell’economia italiana e delle casse dell’Inps, derivanti da una norma di questa natura possono essere esponenziali in vista della seconda ondata autunnale di contagi. E così da più parti si punta l’indice contro una regola da Stato iper-assistenzialista e si sollecita una sua revisione o una sua interpretazione più elastica.
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Va in questa direzione la proposta di Anna Maria Parente, presidente della commissione sanità del Senato, ma anche responsabile lavoro e welfare di Italia Viva: "È una questione su cui riflettere proprio una vista dell’autunno. La quarantena è stata finora equiparata alla malattia perché il diritto alla salute è preminente in caso di epidemia. Ma noi legislatori dobbiamo trovare sempre un equilibrio tra diritto al lavoro e diritto alla salute, entrambi costituzionalmente previsti. E allora una soluzione potrebbe essere che, previa autorizzazione del medico, si possa consentire il lavoro da remoto per chi è positivo ma non sviluppa sintomi. Auspico su questo un percorso di confronto tra le parti sociali, rappresentati dei datori di lavori e lavoratori".
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Insiste sugli effetti negativi dell’impossibilità dello smart working per i positivi asintomatici Emmanuele Massagli, presidente di Adapt: "Si tratta di valutare se sia quella citata una vera situazione di indisposizione che impedisce la prestazione lavorativa per debolezza del soggetto o per i rischi che il lavoro da casa potrebbe avere sul fisico della persona. Invero, nessuna delle due situazioni si realizza: il contagiato totalmente asintomatico è in grado di lavorare e se lo fa non mette a rischio la propria salute. Metterebbe a rischio quella dei colleghi qualora si recasse sul posto di lavoro; per questo si discute del suo coinvolgimento in smart working. Ma a oggi questo non è possibile. E dunque si tratta di intervenire". Il perché è evidente: "Il rischio è quello di ritrovarsi in autunno con centinaia di migliaia di persone ferme in casa e impossibilitate a lavorare. Un ulteriore tegola sulla ripartenza del nostro Paese, che si prospetta assai lenta".
Un concetto sul quale insiste con forza Maurizio Del Conte, giuslavorista bocconiano, primo presidente dell’Anpal: "Il lavoro in sé in smart working non è un fattore di rischio. La norma va cambiata nell’interesse del lavoratore, dell’impresa e del Paese. Ci si è fatti prendere la mano dall’idea che le risorse sono infinite, ma questo è un suicidio come prospettiva".
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E punta proprio sul piano etico-sociale l’argomento a favore del lavoro da remoto dei positivi asintomatici di Marco Bentivogli, ex leader della Fim Cisl, autore del recente saggio In-dipendenti, guida allo smart working: "Servono responsabilità individuale e fiducia nelle persone se non si vuole uccidere in culla lo strumento. Non si può guardare ad esso, come nella norma citata, con un’ottica basata sul lavoro novecentesco".