C’era la generazione de ’L’appartamento spagnolo’, per cui università faceva rima con Erasmus. Era la generazione degli atenei all’estero o comunque lontano da casa, quella delle vacanze lontano dalla famiglia e in giro per il mondo il prima possibile. Quella generazione proiettata verso il ‘fuori’ – e ora sulla soglia dei quarant’anni chiusa in casa in smart working, con figli e didattica a distanza – che l’epidemia da Coronavirus e il successivo lockdown ha fatto diventare un ricordo ingiallito. Perché i ragazzi, gli universitari, ora vogliono stare vicino a casa. Almeno per il momento.
Lo si è visto subito, in questi giorni, con i primi test di ingresso all’università, a Veterinaria come a Medicina: quasi 9 studenti su 10 cercheranno di iscriversi a una facoltà nei dintorni del proprio luogo di residenza, ben il 70% nella propria regione, un coraggioso 17% in una regione confinante o non troppo lontana. Al Sud, da cui partono la maggioranza delle matricole alla volta dei grandi atenei di Roma, Bologna, Milano e Venezia un ragazzo, su tre non si sposterà. Con la speranza, che nutre la metà di loro, di chiedere il trasferimento in un altro ateneo se il prossimo anno accademico vedrà la fine dell’epidemia o un quadro epidemiologico molto più rassicurante.
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Intanto però quel flusso di fuori sede che nelle città italiane del Centro e del Nord – anche piccole come Siena e Perugia – alimentava il mercato degli affitti, della ristorazione ma anche delle copisterie si è fermato, con evidenti ripercussioni economiche. La stessa cosa si può dire per gli stage, per tutto quel bagaglio di attività ed esperienze in presenza che il Covid-19 ha reso quantomeno incerte.
Un capitolo a parte merita l’Erasmus. Nell’ultimo anno accademico, investito in pieno dalla pandemia, erano partiti dall’Italia circa 47mila universitari: l’emergenza sanitaria ha congelato per i mesi più difficili il programma ma la Commissione europea, che sovrintende all’intera organizzazione, ha confermato che il progetto proseguirà nella seconda parte del 2020. Anche se il trend delle candidature per entrarne a far parte è positivo sembrano lontani i tempi spensierati del film di Cedric Klapisc. Anche perché non si parte subito. Anzi.
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La formula trovata è quella della “blended mobility’ che significa un periodo di attività e apprendimenti virtuali e solo dopo, se la situazione sanitaria lo consentirà, ci si potrà spostare all’estero. Certo l’annata è stata difficile. Basti ricordare che a inizio febbraio il Politecnico di Milano aveva sessanta studenti in Cina, nessuno a Wuhan per fortuna, e la Statale una manciata di universitari e qualche docente. Per fortuna tutti hanno fatto in tempo a rientrare ma non è stato così per altri universitari rimasti bloccati in Francia o in Spagna.
"Vorrei tornare a casa ma non posso, tutti i treni sono stati annullati" raccontava Elena, studentessa di Brescia in Francia, a marzo. Voci preoccupate da un capo all’altro del continente si sono susseguite negli ultimi mesi tra il desiderio di tornare a casa e la preoccupazione di perdere crediti universitari: secondo i dati della Commissione europea dei 165mila studenti che si trovavano in Erasmus al momento dell’inizio della crisi, più del 60% ha scelto di tornare a casa.