
Agguato di Via Fani, il 16 marzo 1978 le Br uccidono cinque agenti e rapiscono Aldo Moro
Roma, 16 marzo 2025 – Che fine hanno fatto le auto crivellate di colpi dalle Br il 16 marzo 1978 in Via Fani, a Roma, attraverso le quali cambiò per sempre la nostra storia? Alle 9.02 di quella tragica mattina all’incrocio tra via Fani e via Stresa, nella capitale, il destino di questo Paese mutò violentemente. In soli quattro minuti di orologio alcuni brigatisti rossi, sparando almeno 93 colpi con varie armi da fuoco, massacrarono gli uomini della scorta di Aldo Moro, due carabinieri, Domenico Ricci e Oreste Leonardi e tre poliziotti, Giulio Rivera, Raffaele Iozzino e Francesco Zizzi, per poi rapire l’allora presidente della Dc. Le immagini dell’attentato terroristico in poche ore fecero il giro del mondo e sono rimaste per sempre impresse nell’immaginario collettivo come "l’11 settembre" italiano.
Chiunque, se chiude gli occhi e pensa a quella scena, non può non vedere ancora l’abbraccio mortale nel quale la Fiat 130 blu su cui viaggiavano Aldo Moro e i due carabinieri cadde in trappola insieme all’Alfetta bianca di scorta con a bordo i poliziotti. Il convoglio, che procedeva verso lo stop posto sull’incrocio tra le due vie davanti al bar Olivetti, venne bloccato dalla Fiat 128 bianca guidata dal brigatista Mario Moretti, che inchiodò di colpo. Sul lato destro della carreggiata una Mini Morris blu parcheggiata impedì alle due auto cadute nella trappola letale di tentare la via di fuga laterale, mentre sul versante sinistro della carreggiata comparvero alcuni brigatisti con cappotti da avieri che, mitra alla mano, aprirono il fuoco contro gli agenti uccidendoli tutti sul colpo. L’attacco al cuore dello Stato fu improvviso e violentissimo.
Oggi, 47 anni dopo, quelle auto dalle quali vennero estratti i corpi senza vita dei cinque agenti, quelle macchine attraverso le quali cambiò la storia della nostra Repubblica, non fanno parte di un unico luogo della memoria come accaduto per i resti dell’aereo di Ustica, a Bologna, o come avvenuto per la macchina sulla quale viaggiava il giudice Falcone ucciso nell’attentato di Capaci nel 1992, ma sono ancora in parte abbandonate, divise in luoghi diversi, sconnessi e lontani tra loro. Un po’ come il filo rosso della memoria di quei drammatici momenti, con ancora troppi punti oscuri.
Ma dove sono oggi quelle auto? La Fiat 130 blu di Moro targata L59812 è attualmente conservata presso il centro superiore ricerche e prove della Motorizzazione civile di Roma in via Settebagni, rilevata dopo il dissequestro della magistratura e ora parte del museo storico del centro. Lo stato di conservazione è discreto. L’Alfetta della scorta targata Roma S93393 invece no. La macchina è in stato di abbandono, in pessime condizioni, piena di ruggine, compresi i colpi che la crivellarono quella mattina, collocata in un deposito giudiziario della Questura di Roma, in periferia, a Tor Sapienza, ed è ancora sottoposta a sequestro giudiziario. Accanto, nello stesso deposito, giace addormentata la Fiat 128 bianca familiare targata CD 19707, con targa sottratta all’ambasciata del Venezuela rubata dalle Br l’8 marzo poco prima dell’agguato. Anche questa si trova in pessime condizioni, mezza smontata e aggredita ovunque dalla ruggine. E la Renault 4 Rossa su cui venne ritrovato il cadavere di Aldo Moro il 9 maggio successivo? Il mezzo si scoprì esser stato rubato a Bartoli, imprenditore che allora venne interrogato e rinchiuso a Rebibbia, prima di venire scagionato. Dal 2013, dopo un restauro, è esposta al museo storico delle auto della Polizia di Stato a Roma.
Quelle quattro auto non possono continuare a restare lontane le une dalle altre, alcune in stato di degrado e abbandono. Occorre riunirle in un unico luogo della memoria che le custodisca e che narri attraverso un percorso specifico aperto al pubblico la loro storia; è doveroso per i giovani, ma anche per non dimenticare che Aldo Moro, Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Giulio Rivera, Raffaele Iozzino e Francesco Zizzi, su quelle auto hanno dato la vita perché stavano dalla parte dello Stato contro chi lo Stato lo voleva distruggere. E quello Stato oggi, 47 anni dopo, siamo ancora tutti noi.