Roma, 16 aprile 2020 - Ormai sono quasi più le deroghe che le chiusure che resistono. Mentre il Viminale conferma i numeri delle imprese che dall’8 aprile a oggi hanno chiesto di poter ripartire con la produzione, con il capo di Gabinetto che lancia l’allarme chiedendo ai prefetti controlli più rigorosi e severi sulle attività che lavorano, la Regione Lombardia si muove verso "una nuova normalità". Non si sa ancora quali saranno le linee che imporrà il governo nella ‘fase 2’, ma la Lombardia vuole fare comunque da sé. La richiesta al governo è di poter ripartire – dal 4 maggio, non prima – nel rispetto delle "Quattro D’: Distanza (un metro di sicurezza tra le persone), Dispositivi (ovvero obbligo di mascherina per tutti), Digitalizzazione (obbligo di smart working per le attività che lo possono prevedere) e Diagnosi (dal 21 aprile inizieranno i test sierologici grazie agli studi in collaborazione con il San Matteo di Pavia)". Una formula su cui il governatore Attilio Fontana ha coniato uno slogan, la "via lombarda alla normalità". Che però trova l’opposizione del governo, o per lo meno di un suo membro autorevole. Secondo il viceministro del Mise Stefano Buffagni (M5S) "la richiesta della Regione Lombardia di avere il via libera alle attività produttive a partire dal 4 maggio è un errore". In serata è arrivata la replica del governatore: "Buffagni ha evidentemente male interpretato – ha detto Fontana –. Noi non ci permettiamo di parlare delle attività produttive che sono di esclusiva competenza del governo centrale". La ripresa riguarderebbe quindi le "attività ordinarie".
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Fontana in ogni caso pare voler andare diritto, per esempio con quello che sta cercando di organizzare la task force per la ripartenza guidata da Vittorio Colao. Stessa cosa per Luca Zaia, governatore del Veneto, per il quale qualunque cosa si andrà a decidere, sarà inutile. Perchè "il lockdown, di fatto, non esiste più – ha commentato ieri – non per quello che fa il Veneto, ma perché il governo ha chiuso la fase del lockdown. Nel senso che la chiusura non esiste più. Non c’è. È finita quando il governo ha delegato alle prefetture l’approvazione delle deroghe per le aziende che ritenevano di dover rimanere aperte. E probabilmente, grazie al silenzio assenso, molti hanno riaperto".
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Zaia, in fondo, vede giusto sul ‘silenzio assenso’, almeno a guardare i numeri che ieri proprio il Viminale ha voluto rendere noti per far capire quali e quante siano state effettivamente le ‘deroghe’ e quanti pochi controlli siano stati fatti su vasta scala. Fino all’8 aprile, come racconta una circolare del capo di Gabinetto dell’Interno, Matteo Piantedosi, le prefetture hanno ricevuto 105.727 comunicazioni di prosecuzione di attività da parte di imprese in seguito al lockdown; per 38.534 è ancora in corso l’istruttoria, per 2.296 è stato adottato il provvedimento di sospensione. Dunque, per buona parte di quelle imprese che hanno proseguito l’attività, è stato fatto valere proprio il silenzio-assenso.
Ora, però, alle porte della ‘fase 2’, il Viminale impone una stretta, chiedendo ai prefetti di velocizzare le pratiche delle istruttorie in corso, proprio per vedere quanti hanno fatto i furbi e quanti no. La circolare dell’Interno chiede sempre ai prefetti di avvalersi della Guardia di finanza per le verifiche sulla veridicità delle comunicazioni di richiesta di deroga e della collaborazione di Asl e Ispettori del lavoro per monitorare l’osservanza delle precauzioni "di messa in sicurezza dei luoghi di lavoro e la sussistenza di adeguati livelli di protezione dei lavoratori". Le imprese saranno chiamate a dimostrare "a mezzo di disamine documentali, tramite le banche dati in uso e, ove necessario, rilevamenti presso le sedi aziendali", la reale necessità di prosecuzione dell’attività in corso di pandemia, come da richiesta, anche dopo il 3 maggio.
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