La scintilla è partita da Vo’ Euganeo, 3.279 anime in provincia di Padova: tutte testate a periodi alterni, dai giorni neri del lockdown in avanti, con conseguente isolamento dei positivi e dei loro famigliari. E così via, di test ‘globale’ in test ‘globale’: "Dal 3% di infetti dell’inizio siamo arrivati a zero", ragiona Andrea Crisanti, professore di Microbiologia all’Università di Padova. La strategia si chiama network testing (test di rete) ed è diversa dal contact tracing, il tracciamento dei contatti basati sulla memoria di positivi al Covid. Lo studio sarà presentato l’8 ottobre a Bologna al Festival della Scienza medica (www.bolognamedicina.it). Per Crisanti, "non avremo una seconda ondata, se il network testing non sarà sopraffatto dalla trasmisssione virale. Ergo se non faremo abbastanza tamponi e non li faremo bene".
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Qual è la lezione di Vo’?
"Se intercetti tutti i positivi, blocchi la trasmissione. Banale? Sì, ma vero. Il 40% dei nostri positivi era asintomatico. Quindi abbiamo elaborato un modello per integrare e superare il tracciamento dei contatti".
Il famoso network testing.
"Esatto. Se c’è un positivo in questo momento si testano tutti: parenti, amici, colleghi di lavoro (tutti, non solo qualcuno) e chiunque possa essere entrato in contatto con il positivo. L’intera rete di interazioni. Viceversa, il contact tracing è una cosa completamente diversa, basata sul ricordo della persona: è poi molto difficile ricapitolarlo per chiunque, risalendo a quanto fatto 5 giorni prima".
Una strategia sbagliata?
"Oserei dire inefficiente, limitata anche dalle risorse a disposizione".
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Il network testing richiede però molti tamponi: un conto è farli a Vo’, un conto è su scala nazionale.
"Il tema non è solo fare più tamponi, ma il modo in cui li usiamo. È come usare la canna da pesca (il contact tracing) e la rete a strascico (il network testing). Avere tante canne può richiedere più fatica dell’uso di tante reti e non è detto che costi meno".
Bisogna quindi cercare altri test oltre ai tamponi per intercettare più positivi?
"Non esiste un test adatto a tutte le situazioni. Il tampone è il più affidabile, ma richiede infrastrutture e può essere perfetto per esempio per circoscrivere un focolaio. Serve un test che non ci faccia sfuggire nessuno".
È per questo che a Padova state testando il test sublinguale?
"I test rapidi o quelli sublinguali hanno una sensibilità bassa, sono come una rete a strascico, sì, ma con maglie più larghe. Test di questo tipo però possono essere utili per capire se una comunità è a rischio, se c’è trasmisssione virale".
Lo state provando proprio in Università.
"Perché può avere un senso: in grandi comunità di studenti non vediamo molti malati conclamati o sintomatici. Quindi, trovando dei positivi, si può passare al tampone e spegnere subito un possibile focolaio. Il test sublinguale è in fase di validazione, ma può essere una prima linea di indagine nella comunità degli asintomatici".
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