È tutto vero. Amanda Knox era nella casa del delitto di Meredith Kercher quella maledetta notte tra il primo e il due novembre 2007. E sentì "l’urlo straziante" della studentessa inglese che veniva sgozzata. Urlo di cui parleranno, ma solo giorni dopo, due testimoni chiave del processo. Amanda Knox calunniò Patrick Lumumba "per uscire dalla scomoda situazione in cui si trovava". E non ritrattò nemmeno quando, in carcere, confidandosi con sua madre, rivelò il senso di colpa ("sto malissimo") per aver "rovinato la vita" al congolese finito in cella.
Diciassette anni dopo, uno scaffale di sentenze in mezzo che non hanno mai messo la parola fine al giallo di Mez, ma assolto defintivamente Amanda e Raffaele Sollecito, la Corte d’assise d’appello di Firenze sgombra il campo almeno dal dubbio sulla calunnia con una sentenza meticolosissima: l’americana accusò ingiustamente Patrick. Lei era lì e quindi ben sapeva" che lui "non c’era". Bastano il memoriale scritto in questura il 6 novembre 2007 "in autonomia e solitudine nella sua lingua e di suo pugno", le intercettazioni ambientali e alcuni elementi processuali per confermare la condanna. Tre anni, già scontati.
I giudici, in particolare, dovevano esprimersi dopo che la riforma Cartabia ha imposto di recepire le sentenze della Corte europea. Quest’ultima aveva sanzionato l’Italia per violazione della difesa e dell’assistenza linguistica. Di lì il ricorso in Cassazione dei legali di Knox e la decisione che nel merito fosse la Corte fiorentina ad occuparsene. I giudici avevano paletti strettissimi tra cui muoversi: dovevano stabilire se il compendio giudiziario e il solo memoriale fossero sufficienti per ravvisare il reato di calunnia visto che le dichiarazioni dell’americana erano state espunte. "L’indicazione quale autore dell’omicidio è esplicita e precisa nel memoriale ("vedo Patrick come l’assassino"), puntualizzano i giudici. Mentre la difesa di Knox lo ha definito "un racconto onirico, frammenti di un incubo", dei "flashback dei quali lei stessa dubitava".
La Corte è andata oltre e in alcuni passaggi ha ripercorso la sera del delitto (unico condannato Rudy Guede che ha scontato 16 anni di reclusione) per motivare l’accusa di calunnia. Scrivendo che Knox "era l’unica delle coinquiline presente a Perugia e l’unica (oltre alla vittima) ad essere in possesso delle chiavi della porta d’ingresso della villetta, aperta senza essere forzata". Che si colloca "all’interno dell’abitazione" tanto da riferire dell’"urlo straziante" lanciato dalla studentessa, "puntualmente" riportato nel memoriale. "Elemento ingnoto agli inquirenti – sottolinea la Corte – nel momento in cui veniva scritta la dichiarazione accusatoria". Già la Cassazione nel 2015, assolvendo i fidanzatini aveva ipotizzato la loro presenza sulla scena del crimine. "Pacifica la commissione dell’omicidio, l’ipotizzata presenza nell’abitazione dei due ricorrenti non può, di per sè, essere ritenuta elemento dimostrativo di colpevolezza".
C’erano, ma non c’è prova che abbiano ucciso. "Ci sono profili di censurabilità proponibili avanti alla Cassazione" dice Luca Luparia Donati avvocato dei Knox assieme a Carlo Dalla Vedova. Per Francesco Maresca, legale dei Kercher, "rimane la tristezza di non avere potuto dare giustizia completa" ai congiunti della studentessa inglese.