Roma, 26 agosto 20 24 – Quando molti lo hanno dimenticato e i ricordi sono sfumati nel tempo riaprono il libro chiuso da anni, rileggono le pagine dall’inizio per riannodare con una visione nuova i capitoli di storie irrisolte e fornire una soluzione dove non c’era. Sono i membri dell’Unità delitti insoluti della Polizia di Stato, lo staff dei Cold case. Pamela Franconieri del Servizio centrale operativo e Giuseppe Codispoti, sono rispettivamente responsabile del reparto Cold case e direttore della prima divisione della Polizia Scientifica. Lavorano in tandem insieme ai loro uomini, trovano uno spiraglio di luce nel buio dei delitti con autori senza nome.
L’equipe investigativa indaga anche sugli atti processuali?
"Certo, ci sono colleghi che rileggono il fascicolo alla ricerca di elementi che alla luce di nuove tecniche investigative possono essere un punto di partenza".
Di che figure tecniche vi avvalete?
"Soprattutto dello staff della Polizia scientifica con operatori formati ad utilizzare tutte le tecniche a nostra disposizione. Poi quando è necessario si utilizzano genetisti, analisti, medici legali. Il gruppo di lavoro si allarga secondo le competenze necessarie".
Quali sono le tecniche di indagine più moderne?
"Oggi è possibile recuperare tracce biologiche su reperti conservati da anni, identificare vecchie impronte digitali, ci sono nuove tecniche balistiche, è possibile ascoltare registrazioni di nastri ripulendoli dai rumori per renderli più chiari o percepire rumori di fondo che ad una prima analisi non risultavano".
Quanto aiuta lo sviluppo delle tecniche per l’individuazione del Dna?
"Oggi il Dna è un elemento fondamentale. È possibile risalire ad una identità genetica anche attraverso il Dna di un familiare. Inoltre lo sviluppo dei tipi di reagenti è un altro elemento di grande aiuto. Un aspetto importante è l’esistenza della banca dati gestita dal Ministero di Giustizia che consente di comparare il Dna sotto osservazione".
Le impronte digitali?
"Anche qui oggi è possibile recuperarle su reperti dove prima era impensabile. In un caso i nostri tecnici sono riusciti a rimettere insieme un’impronta che poi ha permesso di identificare un assassino con le tracce sparse su un sacchetto di cellophane accartocciato conservato tra i reperti. Le impronte combaciavano con il Dna trovato sulla calza con cui era stata strangolata la vittima".
Come lavorate in 3D?
"Si riesce a ricostruire la scena del crimine con protagonisti e testimoni. È stato fatto anche per il delitto Moro e la strage di via Fani".
Quanti casi avete risolto?
"Dalla nascita dell’Unità cold case, nel 2009, sono stati riaperti con esito positivo che hanno portato a provvedimenti dell’Autorità giudiziaria 61 casi".
Quali elementi inducono a riaprire un’indagine?
"I nostri investigatori rileggono vecchie vicende e cercano spunti utili, ma a volte nuovi appigli investigativi emergono da indagini in corso, informazioni raccolte dai colleghi delle questure, intercettazioni telefoniche. Elementi considerati deboli all’epoca dei fatti con le nuove tecniche possono diventare importanti".
Un caso classico che avete risolto?
"Il delitto di un legale esperto in diritto societario e della moglie avvenuto nel 1991 a Vicenza. Nel giugno di quest’anno è stato emesso un provvedimento di custodia cautelare".
Come è andata?
"Nel 2023, la Scientifica ha accertato la concordanza tra i profili di Dna trovati su un guanto di pelle rinvenuto dopo il delitto con tracce biologiche estratte da reperti sequestrati dai carabinieri di Scalea quando venne ferito a colpi d’arma da fuoco un uomo nel 2022 per il quale venne indagato tal Umberto Pietrolungo. Due soggetti, originariamente ignoti, il cui profilo genetico era stato acquisito dopo oltre 30 anni in luoghi diversi, in realtà sono la stessa persona".