Firenze, 25 novembre 2023 – Sono nata in una famiglia borghese, di quelle dove quando nasceva il figlio maschio tutto il resto spariva. Avrei voluto fare l’architetto, ma per mio padre era un lavoro da uomini e avrebbe voluto che diventassi professoressa di tedesco.
Quando gli dissi che mi sarei iscritta alla scuola di cinema a Roma mi rispose con un ceffone. Con l’astuzia lo convinsi a darmi il permesso di iscrivermi all’università in Germania, promettendogli di laurearmi.
In realtà il mio obiettivo era quello di frequentare l’Accademia di Cinema e Tv. Non fu facile risultare credibile come regista: donna, minuta, dall’apparenza innocua. Ho dovuto lottare non poco per fare i miei primi film e credo che questa mia battaglia abbia caratterizzato le donne che ho voluto raccontare.
La protagonista del mio primo film, Giocare d’azzardo, è una casalinga, una donna che lavora tutto il giorno per la casa, il marito, i figli e trova nel gioco del lotto una possibilità di riscatto. Sono stata molto criticata per avere scelto, così giovane, un soggetto così ‘banale’. Ma per me era importante, anche allora, lottare per i diritti delle donne. Tutte le donne che ho raccontato devono affrontare un percorso di crescita: all’inizio sono donne fragili, che subiscono una violenza che può essere fisica o psicologica, che le rende succubi. Ma tutte sono caratterizzate da una forza interiore che le porta a conquistarsi il proprio posto nel mondo, a vincere pregiudizi e malvagità, per assicurarsi quella libertà che permette di vivere. Elisa di Rivombrosa è la mia donna forse più famosa, proprio perché deve affermare la propria personalità, superare diverse prove per dimostrare di essere all’altezza e conquistare la propria indipendenza.
La mia mission è quella di raccontare storie per spiegare a tutte le donne, ma anche agli uomini, come si può uscire da determinate situazioni per risolvere il problema. Uno dei miei film meno famosi, La colpevole, viene proiettato nelle scuole per stimolare un dibattito sulla violenza sessuale. La protagonista è una ragazza che cammina per i vicoli di Firenze e viene abbordata da un gruppo di ragazzi che la violentano. Nonostante la vergogna trova il coraggio di denunciare e di raccontare in aula anche le conseguenze dello stupro: dalla scomparsa delle mestruazioni alla necessità di uscire di casa camuffata e con una parrucca per evitare insulti e battute volgari, per non essere accusata di avere rovinato il nome di questi bravi ragazzi provenienti da una buona famiglia.
Il finale è molto amaro: una sentenza di condanna simbolica, quasi un buffetto sulla guancia, che evidenzia quanto ancora ci fosse da lottare, siamo negli anni ’90, per far comprendere la gravità di questo tipo di violenza. In quel periodo, per preparare il film, andai in giro, per strada, a intervistare le persone. La domanda era: "Tu cosa faresti se succedesse a tua figlia?". La risposta più comune, che mi gelava il sangue, era: "Le direi di cercare di riprendersi, di non denunciare, per evitare la vergogna di finire sui giornali". Ancora oggi, dopo 33 anni, nei processi è la vittima a finire sul banco degli imputati.
E ancora oggi inorridiamo quando leggiamo i resoconti ai quali ci ha abituato la cronaca. Credo che la violenza fisica e quella psicologica siano entrambe distruttive e tremende. E ne parlo per averle vissute in prima persona, come molte donne. Io mi ricordo ancora il primo schiaffo che ho ricevuto. Avevo 15 anni, era il mio fidanzatino ed era stato causato da una stupidaggine. Poi ce ne sono stati altri, poi sono venute le botte. Bisogna trovare il coraggio di dire basta subito, perché sennò si diventa succubi e cominci a credere a tutte le accuse che vengono fatte. Se osavo rispondere le reazioni diventavano ancora più violente. Ero ridotta in uno stato in cui se lui diceva che un foglio bianco era rosso io lo vedevo rosso. Ho dovuto da sola riabituarmi a pensare con la mia testa. Alla fine mi ha salvato mia madre, perché vedendo i lividi e accorgendosi finalmente di quello che mi stava succedendo mi ha aiutato ad affrontare un percorso di consapevolezza.
È la prima volta che racconto questa storia, ma credo sia importante parlarne, soprattutto oggi, per aiutare chi si trova in queste situazioni ad affrontare il giusto percorso per uscirne. Spesso non si parla per vergogna, ma è il carnefice che si deve vergognare, non la vittima.