di Antonella Coppari
Nei 27 giorni necessari per fare il governo gli equilibri sono cambiati. Il leader da cui guardarsi a urne appena chiuse era Salvini, oggi ha le fattezze di Berlusconi. Mercoledì al Senato prenderà la parola, difficile pensare che attacchi, rivendicherà però il ruolo essenziale di FI nella fisionomia politica del governo. Cosa significhi in concreto ora è oscuro. Il punto di frizione possibile, peraltro già emerso, riguarda la politica estera. Le differenze ci sono, e non si limitano ai biglietti dolcissimi che il sovrano di Arcore si scambia con lo zar. L’atlantismo e l’europeismo di Tajani, ma anche di Berlusconi, non sono in discussione, ma i due termini non sono equivalenti, si scostano spesso e potrebbero divaricarsi di più. Giorgia ha già scelto di indirizzare il governo lungo la filiera più atlantica, quella composta dai paesi dell’Europa dell’est e dagli Usa. I due forzisti sono più legati a Parigi e Berlino: semmai dovesse crearsi un conflitto tra le due tendenze si ripercuoterebbe all’interno dell’esecutivo.
Per il resto si naviga a vista. Con l’intenzione, da parte di Silvio, di recuperare il terreno perduto nella partita dei ministeri. Sulla carta i sottosegretari dovrebbero essere equamente ripartiti tra le forze principali, un terzo a testa, ma è facile immaginare che i centristi reclameranno risarcimenti. In ogni caso, Berlusconi mira a piazzare i suoi nei dicasteri da cui è stato escluso, a partire da Mef, Mise e Giustizia. Nella trattativa è stato messo all’angolo dal soverchiante risultato elettorale di Giorgia e dalla sua alleanza con il capo leghista. Silvio prevede però che i rapporti di forza saranno in futuro diversi. Entrambi i capigruppo vengono dall’area meno conciliante con la premier.
Al Senato poi c’è una Ronzulli che è umano immaginarsi con il dente avvelenato. Pur di blindarsi a Chigi, la premier ha sguarnito Palazzo Madama: senza 9 senatori (più La Russa), il governo è destinato a ballare nelle commissioni e a farlo ballare sarà Licia e, dietro di lei, Silvio. Sempre che il suo ruolo si limiti a quello di capogruppo. La sua ’fazione’ è determinata a dare battaglia: "Tajani ancora capo? Neanche Maciste sopporta troppi pesi", diceva 3 giorni fa Giorgio Mulè. Un modo come un altro per chiedere un passaggio di consegne. E se l’incarico di coordinatore dovesse tornare in pista, è probabile che lei avanzerebbe la sua candidatura, e i possibili guai per Giorgia si moltiplicherebbero. Su cosa? Saperlo ora non è rilevante: è inevitabile che, se il governo prenderà il largo, tensioni spunteranno.
Insomma, i rapporti al minimo storico con Arcore sono il problema numero uno della leader di FdI. Che ha un asso nella manica: stavolta non sono immaginabili ribaltoni, se il governo cade si torna a votare. Ed è l’ultimo dei desideri dei forzisti. Per quanto sia riuscito a fare l’ennesimo miracolo e per quanto temibile sia ancora, il declino di Silvio è irreversibile, fosse solo per questioni anagrafiche. Uscire dal Parlamento per molti vorrebbe dire non rientrarci più.