Milano, 9 febbraio 2024 – “La mia battaglia è durata diciassette anni e 22 giorni, dal 18 gennaio del 1992, quando mia figlia ebbe l’incidente, al 9 febbraio del 2009, il giorno della sua morte, in una clinica di Udine". Gli anni che si sommano agli anni, le sofferenze che non può non avere patito, non hanno piegato Beppino Englaro . È il "padre di Eluana", come se alla sua identità anagrafica se ne fosse sovrapposta un’altra: quella del padre di Lecco che si è battuto allo stremo perché venisse rispettata e tradotta in pratica la volontà della figlia di non vivere in un stato vegetativo.
Beppino Englaro, quindici anni dopo.
"Sono stati anni tristissimi, senza le due persone che avevo più care al mondo: mia figlia e mia moglie. Erano in assoluta simbiosi. Eluana viveva la sua non vita e mia moglie era accanto a lei, a curare la sua persona. Non l’ha mai lasciata. Si è consumata così, come una candela".
In questi quindici anni non le è mai capitato anche un solo attimo di ripensamento? Oggi rifarebbe tutto?
"Assolutamente mai nessun ripensamento. Perché avrei dovuto averne? Non potevo non fare altro che quello che ho fatto. Non avevo scelta, starei quasi per dire che non avevo scampo. Non potevo tradire la volontà di mia figlia. È stato immediato. Se Eluana fosse stata libera e cosciente avrebbe detto: “No, grazie, non accetto l’offerta terapeutica. Non voglio vivere in queste condizioni“. Quando, un anno esatto prima dell’incidente, aveva visto il suo amico Alessandro in rianimazione, era andata ad accendere un cero in chiesa, non perché vivesse, ma perché morisse. E l’aveva detto: “Io mai e poi mai così“".
La sua è stata a lungo una battaglia solitaria.
"Per quattro anni sono stato un cane che ulula alla luna. Non riuscivo a capacitarmi. Avevo vicino mia moglie, è stata sempre con me fin dal primo incontro con il primario della rianimazione, peraltro una persona squisita: ci ha detto che non poteva esimersi dal curare Eluana. Sono andato avanti con la tempra di uno nato in un piccolo paese ai piedi delle Alpi Carniche, che fin da bambino, nel dopoguerra, si è confrontato con le cose più aspre della vita".
Quando ha finito di combattere in solitudine?
"Il professor Carlo Alberto Defanti, neurologo, uno dei fondatori della Consulta di Bioetica, è stato il primo ad ascoltarmi. Si è formata quella che io chiamo la mia “squadra“. L’avvocato Maria Cristina Morelli ha impostato la questione. Per la Cassazione il professor Vittorio Angiolini. L’avvocato Giuseppe Campeis. a Udine. Il magistrato Amedeo Santosuosso. Il filosofo Maurizio Mori. Il medico Amato De Monte. Una grande persona, l’avvocato Franca Alessio, una torre di umanità e di dottrina che non è mai crollata: se non fossi stato nel giusto, avrebbe distrutto me per primo".
La vicenda di Eluana cosa ha fatto sì che cambiasse?
"Con la legge 219 del 2017 il medico non può più dire: “Non posso non curare“. È stato affermato il principio dell’autodeterminazione attraverso le disposizioni anticipate di trattamento (Dat) date dalla persona nel caso che un giorno si venisse a trovare nelle condizioni di non poter esprimere la sua volontà. Mia moglie e io siamo stati i pionieri di questo in una società che non era ancora preparata ad accettare la scelta di Eluana".
Pensa che oggi ci sia ancora chi ostacola la legge sulle Dat?
"Non lo penso. Ma è necessario che venga data la maggiore informazione possibile".
Per la legge sul fine vita, l’impressione è che le Regioni si muovano in ordine sparso.
"È un dato di fatto. Si dovrà arrivare a un legge nazionale che parta dal ministero della Salute".