Roma, 27 febbraio 2023 - I superstiti nel centro di accoglienza di Isola Capo Rizzuto piangono senza parlare. Si tolgono i vestiti bagnati e affondano dentro le coperte termiche prima di diventare ancora una volta aritmetica. La barca inghiottita dal mare in tempesta a pochi metri dalla riva. Diciamo ottanta? Ottanta ce l’hanno fatta. Ma gli altri, quelli che stavolta non vengono conteggiati come i disperati di Lampedusa bensì di Crotone, potrebbero essere molti di più. E in quella cifra spaventosa dove si mescolano le anagrafi di Iran, Iraq, Afghanistan e Siria vanno messi i morti bambini, fra cui due gemellini di massimo tre anni e un piccolo naufrago la cui vita si contava ancora in mesi. Quanti altri verranno restituiti dalle onde? Per quanto ancora possiamo sopportare l’immagine della donna con il naso spaccato che grida il nome del figlio scomparso? Sbaglia ad accusare Nettuno chi naufraga una seconda volta, dicevano i latini. E anche in questa tragedia immensa, che sembra sempre la stessa replicata settimana dopo settimana, gli dei del mare devono essere lasciati in pace. Non vedono, non sentono. La pazzia dell’uomo non li riguarda.
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Nemmeno oggi che tocca al mare calabrese. Quello delle vacanze per famiglie, delimitato dagli scogli dove i nonni a giugno insegnano a raccogliere le telline. Dove su Google alla richiesta "bambini in mare" vengono fuori i consigli per proteggerli e farli divertire: le conchiglie, il cappellino, attenzione alle meduse. "Ho visto recuperare cadaveri di bambini – dice il sindaco di Cutro Antonio Ceraso –. Uno spettacolo raccapricciante che a tutti dovrebbe essere risparmiato".
Medici Senza Frontiere si ripete e continuerà a farlo tragedia dopo tragedia: "Nel Mediterraneo si continua a morire in modo incessante in un desolante vuoto di capacità di soccorso. A poche decine di chilometri dalle coste italiane, quando la meta era davanti agli occhi, è annegato il futuro di decine di persone che cercavano una vita più sicura in Europa. È umanamente inaccettabile e incomprensibile perché siamo sempre qui ad assistere a tragedie evitabili. È un pugno allo stomaco, non ci sono altre parole". Pietro Trabucchi fa lo psicologo. Specializzato in resistenza, diciamo così. E sembra suggerire che l’ipotesi del naufragio sia emotivamente tollerabile per chi già va a fondo: "Quando la vita rovescia la nostra barca alcuni affogano, altri lottano strenuamente per risalirvi sopra. Gli antichi connotavano il gesto di tentare di risalire sulle imbarcazioni rovesciate con il verbo resalio. Forse il nome della qualità di chi non perde mai la speranza e continua a lottare contro le avversità, la resilienza, deriva da qui".
E questo forse spiega perché la strage si ripete, perché un siriano che guarda la televisione, e sa, continua a tentare la sorte: sale su un caicco sgangherato che probabilmente non reggerà il mare agitato, che probabilmente andrà a sbattere come stavolta sugli scogli delle telline. E si porta appresso i figli piccoli, o li affida alla madre, a un parente, sperando di regalare loro una vita migliore. Per raddrizzare una barca destinata ad affondare, per aggiudicarsi un giro di giostra in quella Disneyland che si chiama Europa. E noi, l’Europa, qui muti a contare. A settembre, i 20 e più bambini morti al largo di Tartus, in Siria, in uno dei naufragi più tragici del Mediterraneo. A ottobre, i due piccoli carbonizzati sul barcone in panne diretto a Lampedusa, un maschio e una femmina stroncati dall’esplosione del motore perché su quelle carrette non è solo l’acqua a fare paura. E appena dietro l’angolo, visione da non dormirci, il destino del neonato caduto vivo in mare sempre davanti a Lampedusa, scivolato dalle braccia della madre morta. Piangono senza parlare, tanto cosa c’è da dire? Se hanno deciso di stare in equilibrio su un pezzo di legno senza nemmeno conoscere la destinazione, forse è perché non sembrava la scelta più pericolosa. In fondo non più pazzi di noi che inorridiamo senza ammettere di essere tutti sulla stessa barca, destinati al medesimo naufragio che non prevede sopravvissuti.