Monza, 16 giugno 2023 – Il tempo che si ferma. La vita che cambia alle 4.40 di mattina del 17 giugno 1983. "Raffaele, non riesco a capire, sono impazziti, mi accusano di cose assurde. Vieni, corri, ho bisogno di te". La voce rotta dal dolore è quella di Enzo Tortora. All’altro capo del filo, nella sua abitazione di Monza, l’avvocato Raffaele della Valle. Con Alberto Dall’Ora e Antonio Coppola ha difeso Tortora nella sua allucinante odissea giudiziaria e processuale. Di recente ha pubblicato Quando l’Italia perse la faccia. L’orrore giudiziario che travolse Enzo Tortora , libro-conversazione con Francesco Kostner.
Avvocato della Valle, quarant’anni dopo: perché Tortora?
"Il perché è dovuto al fatto che si diede credito alle parole malefiche di Giovanni Pandico. Incredibile ma si prestò fede a un soggetto pluricondannato, che i periti psichiatrici avevano definito “delatore“, “paranoide, schizoide, dotato di personalità aggressiva, fortemente condizionato da mania di protagonismo“. Pandico fece per la prima volta il nome di Tortora il 28 marzo 1983, consegnando l’elenco dei 240 affiliati alla Nuova Camorra Organizzata che aveva compilato nel suo quinto interrogatorio, sette giorni prima. Mai prima di allora aveva citato Tortora. Pandico si agganciò alla storia di Domenico Barbaro, quello che aveva mandato dei centrini a Portobello , la popolarissima trasmissione di Enzo. Barbaro aveva scritto alla Rai, non direttamente a Tortora ma all’Ufficio legale, lamentando che i suoi centrini non fossero stati messi in vendita. Per gli inquirenti la parola “centrini“ era una sorta di nome in codice per mascherare le partite di cocaina. Infine Pasquale Barra, “’O animale“. Dopo diciassette interrogatori senza mai fare il nome di Tortora, si adeguò".
Appare incredibile, soprattutto a distanza di tanti anni, che sia stata data credibilità a simili personaggi.
"Mi rifiuto di credere che fu per dabbenaggine. Vennero credute fandonie, farneticazioni. Il presidente della Corte d’appello scrisse che era delittuoso credere alle bestialità di costoro. La completa estraneità di Tortora fu chiara dall’inizio, fin da quando venne chiarita la storia dei centrini. Ma ormai l’astronave era partita per la Luna e nessuno ebbe il coraggio di richiamarla. Non fu responsabilità dei soli pubblici ministeri. Più giudici appoggiarono questo scempio".
Ci fu anche la storia di un’agendina e di un numero di telefono.
"L’agendina era stata sequestrata dalla squadra mobile di Lecce in una perquisizione il 15 marzo 1983. Nel verbale venne dato atto che in una paginetta erano annotati il nominativo e i numeri di telefono di Tortora. Non si trattava di Enzo Tortora ma di Enzo Tortona. Davanti ai giudici di Napoli si presentò Enzo Tortona che dichiarò tranquillamente che era il numero del suo telefono. Che prova mi dà, il presidente? ‘ Presidè, facite ‘o numero ’, rispose Tortona".
Da allora cosa è cambiato?
"Ben poco. E non cambierà nulla se non si agirà a livello di cultura del diritto. Quello della presunzione di non colpevolezza è un principio della nostra Costituzione. Oggi vediamo invece una cultura del sospetto radicata in molti inquirenti, che va a influenzare talvolta anche i magistrati giudicanti, tenuto conto del notevole appoggio mediatico di cui molto spesso dispongono. La prima vera e incisiva riforma da fare è la separazione delle carriere".
In che misura ha avvertito la vicenda Tortora a livello professionale e umano?
"Per moltissimi anni ha influito sia sul mio carattere sia sul mio rapporto con i magistrati. Per anni ho sovrapposto alle persone che avevo davanti le immagini di Tortora nell’istruttoria e nel primo processo. Il mio era un atteggiamento duro. Poi, piano piano, quella terribile esperienza si è diluita. Ho incontrato e incontro ancora magistrati illuminati. Ma guardo con preoccupazione a come il rapporto umano, il contatto personale fra magistratura e avvocatura si allontanino sempre di più".
Chi era Enzo Tortora?
"Un uomo di una cultura enorme, spropositata. I libri che lo circondavano non erano da esposizione: erano libri letti, riletti, annotati, persino sofferti. Tortora era di una incredibile dirittura morale, di una statura ineccepibile. Il pm concluse il primo interrogatorio augurandogli “buona fortuna“. Enzo commentò in seguito: “È una frase che accetto da un venditore di biglietti della Lotteria di Merano, non certo da un giudice. La magistratura, che io sappia, amministra la Giustizia e non la Fortuna“. Mente preparavo i motivi di appello, Tortora mi diffidò dall’avanzare delle richieste subordinate: “Guai a te se lo fai. Io devo essere assolto e basta“".
(1 - continua)