Esce martedì 14, pubblicata in contemporanea in cento Paesi (da Mondadori in Italia) ‘Spera’, la prima autobiografia di un Papa, scritta in collaborazione con Carlo Musso. Per concessione dell’editore pubblichiamo in anteprima un estratto del prologo, sul disastro della nave su cui nel 1927 sarebbero dovuti salire i nonni e il padre di Bergoglio per emigrare dall’Italia all’Argentina.
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Raccontarono che si udì una scossa tremenda, come un terremoto. Tutto il viaggio era stato accompagnato da vibrazioni forti e sinistre, e “l’inclinazione era tale che la mattina non potevamo appoggiare la tazza con il caffelatte perché si sarebbe rovesciata”, ma quella era un’altra cosa: somigliava più a un’esplosione, come una bomba. I passeggeri uscirono dai saloni e dalle cabine e si riversarono sui ponti per cercare di capire che cosa mai stesse accadendo. Era pomeriggio inoltrato e la nave puntava verso le coste del Brasile, in direzione Porto Seguro. Non era una bomba: un tuono sordo, piuttosto. Il piroscafo continuava a procedere ma la sua corsa era diventata folle, come un cavallo imbizzarrito, ora sbandava gravemente, e rallentava. Un uomo, dopo essere rimasto per ore aggrappato a un legno nell’oceano, avrebbe poi testimoniato di aver visto con chiarezza sfilarsi l’elica e l’albero del motore di sinistra. Completamente. L’elica, raccontarono, aveva squarciato lo scafo in una profonda ferita: l’acqua entrava copiosa, allagando la sala macchine, e avrebbe presto invaso pure la stiva, poiché anche le porte stagne a quanto pareva non funzionavano a dovere. Raccontarono che qualcuno tentò di riparare la falla con pannelli di metallo. Inutilmente. Raccontarono che gli orchestrali ricevettero l’ordine di proseguire a suonare. Senza sosta. La nave continuava a inclinarsi sempre di più, il buio avanzava, il mare si ingrossava. Quando fu evidente che le prime rassicurazioni ai passeggeri non potevano più bastare, il comandante diede ordine di fermare le macchine, fece suonare la sirena d’allarme e i marconisti lanciarono il primo SOS. Il segnale di soccorso fu raccolto da varie imbarcazioni, due piroscafi e perfino un paio di transatlantici, che si trovavano nelle vicinanze. Accorsero immediatamente, ma furono tutti costretti ad arrestarsi a una certa distanza perché una vistosa colonna di fumo bianco faceva temere una disastrosa esplosione delle caldaie. Dal ponte, con il suo megafono, il comandante cercava sempre più disperatamente di invitare alla calma e coordinava le operazioni di soccorso, dando priorità a donne e bambini. Ma quando sopraggiunse la notte, una notte buissima di luna nuova, e anche l’erogazione di energia elettrica a bordo si interruppe, la situazione precipitò del tutto. Furono calate le lance di salvataggio, ma l’inclinazione della nave ormai era terribile: molte colarono subito a picco dopo aver colpito lo scafo, altre si rivelarono fatiscenti e inservibili, imbarcavano acqua che i passeggeri erano costretti a levare utilizzando i loro cappelli. Altre ancora, prese d’assalto, si rovesciarono, o affondarono per il sovraccarico. In parecchi, artigiani e contadini delle valli e delle pianure, non avevano mai visto il mare prima di allora, e non sapevano nuotare. Preghiere e urla si mescolavano. Fu il panico. Molti passeggeri caddero o si gettarono in mare, annegando.
Alcuni, così dissero, furono vinti dalla disperazione. Altri ancora, come riportò la stampa locale, furono divorati vivi dagli squali. In quel pandemonio le zuffe non si contavano, ma anche i gesti di coraggio e di abnegazione. Dopo aver soccorso decine di persone, un giovane a cui era stato assegnato un salvagente attendeva il suo turno per gettarsi in acqua. Fu allora che vide un vecchio che non sapeva nuotare e non aveva trovato posto in nessuna barca: chiedeva aiuto. Il ragazzo gli fece indossare il suo salvagente, si gettò in mare insieme a lui e cercò di arrivare alla scialuppa più vicina. Nuotò forsennatamente quando dalle onde si levarono voci sempre più concitate: squali! Gli squali! Fu aggredito. Da una lancia un suo compagno riuscì a issarlo a bordo, ma le ferite erano devastanti. Poco dopo morì. Quando la sua storia fu raccontata dai superstiti, l’Argentina ne fu commossa. Nel suo paese natale, nella provincia di Entre Ríos, a quel ragazzo fu intitolata una scuola. Era figlio di un migrante piemontese e di una donna argentina, e aveva appena compiuto ventun anni: si chiamava Anacleto Bernardi. Ben prima della mezzanotte la nave era ormai del tutto invasa dall’acqua, si alzò verticalmente di prua e con un ultimo gemito fragoroso, quasi animalesco, colò a picco, a oltre 1400 metri di profondità. Diverse testimonianze concordarono nell’affermare che il comandante restò a bordo fino alla fine, facendo suonare agli orchestrali rimasti la “Marcia Reale”. Il suo corpo non fu mai trovato. Di certo, appena prima che il piroscafo si inabissasse, vennero uditi molti colpi di arma da fuoco, esplosi, si disse, dagli ufficiali che, dopo aver fatto quanto possibile per i passeggeri, avevano deciso che non avrebbero affrontato lo strazio dell’annegamento. Alcune lance riuscirono a raggiungere le navi vicine e, insieme a quelle provenienti dalle altre imbarcazioni accorse, aiutarono a portare in salvo diverse centinaia di persone. Il recupero dei pochi superstiti che tentavano di rimanere a galla come potevano proseguì fino a tarda notte. Quando, prima dell’alba, sopraggiunsero sul luogo del disastro altri piroscafi brasiliani, non trovarono più alcun sopravvissuto. Quella nave, lunga quasi 150 metri, era stata a inizio secolo il vanto della marina mercantile, il più prestigioso transatlantico della flotta italiana, aveva trasportato personaggi come Arturo Toscanini, Luigi Pirandello o Carlos Gardel, una leggenda del tango argentino. Ma quei tempi erano passati da un pezzo. In mezzo c’era stata una guerra mondiale, e l’usura, l’incuria e la scarsa manutenzione avevano fatto il resto. Ora la nave era conosciuta piuttosto come la “balaìna”, la ballerina, per le incerte condizioni generali. Quando partì per il suo estremo viaggio, nella perplessità del suo stesso comandante, aveva a bordo più di 1200 passeggeri, in prevalenza migranti piemontesi, liguri e veneti. Ma anche dalle Marche, dalla Basilicata, dalla Calabria. Secondo i dati forniti dalle autorità italiane dell’epoca, nel disastro morirono poco più di 300 persone, in massima parte membri dell’equipaggio, dissero; ma i giornali sudamericani riportarono una cifra ben più alta, oltre il doppio, includendo anche clandestini, diverse decine di emigranti siriani e i braccianti agricoli che dalle campagne italiane andavano in Sudamerica per la stagione invernale. Minimizzato o coperto dagli organi del regime, quel naufragio fu il “Titanic” italiano. Non so dire quante volte ho sentito raccontare la storia di quella nave che portava il nome della figlia di re Vittorio Emanuele III, destinata anch’essa a una tragica morte, nel lager di Buchenwald, diversi anni dopo, verso la fine di un’altra tremenda guerra. Il Principessa Mafalda. Quella storia la raccontavano in famiglia.
La narravano nel barrio. La cantavano le canzoni popolari dei migranti, da una parte all’altra dell’oceano: “Dall’Italia Mafalda partiva con un migliaio e più passegger […] Padri e madri bracciavan i suoi figli che si sparivano tra le onde”. I miei nonni e il loro unico figlio, Mario, il giovane uomo che sarebbe diventato mio padre, avevano comprato il biglietto per quella lunga traversata, per quella nave salpata dal porto di Genova l’11 ottobre 1927, con destinazione Buenos Aires. Ma non la presero. Per quanto ci avessero provato, non erano riusciti a vendere in tempo ciò che possedevano. Alla fine, loro malgrado, i Bergoglio furono costretti a scambiare il biglietto, a rimandare la partenza per l’Argentina. Per questo ora io sono qui. Non immaginate quante volte mi sia trovato a ringraziare la Provvidenza Divina.