di Doriano Rabotti
Ha vinto Semenya, hanno vinto i diritti civili, nel caso specifico quelli degli atleti transgender, o ha perso la scienza?
La domanda resterà sospesa nell’aria, appesa a un grande punto interrogativo che esce dall’ambiente delle piste di atletica e dei campi di calcio o volley, dalle pedane di sollevamento pesi, e diventa un po’ più globale. Perché l’impressione è che nemmeno la scienza sia riuscita a dare una risposta certa su un tema così dibattuto. Sul piano morale e dei diritti, il problema non si pone neanche: è chiaro che chi è nato in un corpo che non sente suo e per questo motivo, spesso dopo anni di grandi sofferenze interiori, ha deciso di cambiare sesso, abbia il diritto di non sentirsi discriminato. Ma come si fa a capire se in nome dell’uguaglianza viene rispettato un concetto fondamentale non solo dello sport, ovvero quello della parità competitiva? Il problema si pone per gli sport di forza e resistenza, e solo per gli uomini che decidono di cambiare sesso: sono avvantaggiati rispetto alle concorrenti donne?
Nel 2009, sulle piste d’atletica, fu la nostra Elisa Cusma a mettere in discussione il genere di Caster Semenya, che l’aveva battuta: "Per me quello è un uomo", disse. In pratica è partita da lì l’attenzione dello sport mondiale su questo tema. In dodici anni, per fortuna, cultura e mentalità sono cresciute insieme a un dibattito che però è ancora ben lontano dall’essere concluso. Ma le ragioni dello sport possono essere considerate più grandi di quelle della vita?
È proprio partendo da questo principio, dall’equità di genere e dall’inclusione, che il Comitato Olimpico mondiale ha varato le nuove regole per le gare del futuro. Ci ha messo due anni sentendo il parere di 250 soggetti interessati, prima di stilare un decalogo che all’atto pratico è un passo indietro, perché consegna alle federazioni di ogni sport e nazione la responsabilità di decidere se un atleta possa avere un "vantaggio sproporzionato rispetto ai suoi pari". Come stabilirlo, non si sa. Fino ad ora, l’unico strumento di valutazione oggettivo che era stato individuato dagli scienziati era il livello di testosterone: superato un certo punto, non potevi gareggiare contro le donne. Questo non era bastato a evitare la gogna del sospetto alle due atlete namibiane Christine Mboma e Beatrice Masilingi, alle quali fu impedito di gareggiare nei 400 metri a Tokyo per ’iperandroginia’. Ma il testosterone andava bene per fare negli stessi Giochi i 200, nei quali la Mboma ha vinto l’argento.
Problema rimosso: il valore del testosterone non sarà più una discriminante, il Cio suggerisce di valutare caso per caso (nel tiro a volo, per esempio, la differenza di genere è ininfluente), tenendo in considerazione anche "aspetti etici, sociali, culturali e legali". A Tokyo, per la cronaca, la sollevatrice di pesi neozelandese Laurel Hubbard, nata come Gavin, gareggiò senza classificarsi, ma già esserci fu una vittoria. E nel corso degli anni sono stati tanti i casi famosi: dal decatleta americano campione olimpico nel ‘76 diventato Caytlin durante un reality, alla nostra Valentina Petrillo, alla ciclista canadese campionessa del mondo Veronica Ivy. Il documento del Cio conclude: "non si dovrebbe presumere che le donne trans abbiano un vantaggio automatico rispetto alle altre donne".Scommettiamo che non è finita qui?