Roma, 8 febbraio 2019 - Annamaria Franzoni è una donna libera. Professor Claudio Mencacci, che effetto le fa? «Questo caso è stato argomento di riflessioni e lacerazione nel Paese – risponde l’esperto psichiatra, già ex presidente della società italiana di psichiatria –, ma ha portato un’attenzione positiva su alcune condizioni di depressione perinatale, facendo sì che finalmente venissero messe in atto campagne di sensibilizzazione e prevenzione su una condizione psicopatologica molto frequente fino ad allora quasi sconosciuta. Oggi abbiamo in diverse regioni programmi molto validi. Sicuramente è aumentato l’aiuto alle mamme in difficoltà».
La Franzoni non ha mai confessato e non ha mai nemmeno sostenuto: non ricordo. È possibile che un delitto venga rimosso? «Il mondo è pieno di persone che hanno commesso delitti senza confessarli. Il segreto più grosso è quello cosciente, qualcosa che ciascuno di noi protegge dentro di sé».
Lei cosa pensa? «Mi affido a ciò che la magistratura ha evidenziato. Le amnesie dissociative esistono, pensiamo ai bimbi dimenticati in auto».
Che rischi ci sono ora che la pagina di Cogne è chiusa per sempre? «C’è la percezione che una persona è libera di scegliere quali percorsi avere nella propria vita. Le dinamiche sono quelle di una famiglia che ha dimostrato un senso di unità unico, di voler proseguire nella crescita dei figli».
In una perizia era stato stabilito: «È socialmente pericolosa». Recentemente gli esperti hanno stabilito che è cambiata. «L’età svolge il suo ruolo, certe impulsività tendono ad attenuarsi. Sono passati tanti anni e lei ha avuto un comportamento lineare, sotto la lente d’ingrandimento».
Che ruolo hanno avuto suo marito e i suoi figli in questa vicenda? «C’è stato un atto di grande fiducia, affidabilità, investimento. La tragedia è stata considerata come qualcosa da assorbire in un contesto di famiglia».
Ha mai visto una ‘protezione’ simile? «No. Nella morte di un figlio, però, la famiglia spesso si ricompatta e ricostruisce le relazioni dal lutto».
Suo marito ha fatto un figlio con lei subito dopo il delitto. Quel bimbo è nato un anno dopo. «È un modo ‘attivo’ di affrontare il lutto. La risposta può essere questa, è frequente. Una sostituzione, una compensazione, che indica sempre l’intenzione di mantenere viva l’idea del nucleo famigliare solido».
Lei cosa ricorda di quei giorni? «È un giallo che ha generato paura nelle giovani madri, temevano per la propria impulsività, rischiando di confondere fantasie normali e transitorie, con le azioni. Questo orrore ha generato ansia e insicurezza nell’avere e crescere figli. Un caso di cronaca che ha fatto scuola».
Che cosa la stupì di più? «Quella morte è diventata una guerra tra madri buone e cattive, portando una svolta in quel ruolo».
Il dispiacere e il senso di colpa in lei non sono mai usciti allo scoperto: come mai? «L’anestesia affettiva non è rara».
Dicono che Franzoni sia stata una detenuta modello e non si sia mai ribellata allo Stato che – secondo lei – l’avrebbe condannata ingiustamente. È un comportamento normale per una persona innocente in galera? «Un individuo che si sente vittima di un’ingiustizia può anche sacrificarsi e mettersi da parte impotente, aspettando la fine della pena».