Milano. 21 ottobre 2024 – “Alluvioni e allagamenti non hanno mai distinto tra piccoli e grandi centri. Semplicemente nelle grandi città tutto è più visibile e i danni si moltiplicano per l’addensamento di persone e cose, e perché l’acqua trova meno vie di fuga”. Paolo Pileri, docente di Pianificazione territoriale e ambientale al Politecnico di Milano, indica una via obbligata per far fronte a un’emergenza che si presenta con sempre maggiore frequenza: “Togliere cemento”.
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Professore, negli ultimi tempi abbiamo visto Milano allagarsi quasi a ogni pioggia e nelle ultime ore è toccato a Bologna.
“Togliere spazio a fiumi, torrenti, canali, rogge e spesso tombarli ha reso sempre più fragile la rete scolante e aumentato l’esposizione ai potenziali danni. Ma è il carico antropico e urbanistico ad essere aumentato a dismisura senza aumentare proporzionalmente la capacità di drenaggio delle aree urbane. Non ci sono solo bombe d’acqua, ma continue bombe di cemento e asfalto che hanno ridotto la capacità del territorio di reagire”.
Bologna è urbanisticamente in grado di reggere a piogge così intense e violente?
“Più in generale le giunte regionali e il governo centrale dovrebbero fermare ogni azione urbanistica e fare una seria verifica della capacità di ogni città di reggere a piogge e venti in questo clima cambiato. Ma nessuno lo sta facendo nonostante noi studiosi lo diciamo da anni. Zero”.
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Una città moderna come Milano non si distingue in questo panorama?
“Per Milano non c’è una ricetta diversa rispetto a Bologna o Roma o Pescara. Tutte le città devono fermare il consumo di suolo e depavimentare. Milano non lo ha fatto e non ha intenzione di farlo in modo serio. Nel 2021 ha cementificato altri 18 ettari e nel 2022 altri 26 in barba a qualsiasi idea di sostenibilità. Certo, ha piantato alcuni alberi (pochi rispetto a quel che deve fare) ma serve a poco o nulla se mantiene elevati tassi di consumo di suolo e non depavimenta nulla. E sta completamente rinunciando a una pianificazione di sistema che incida sulle scelte urbanistiche dei comuni dell’area metropolitana. Se ogni città non capisce che non è sola nell’oceano non andremo lontani”.
Cosa bisogna ripensare a livello urbanistico per rispondere al cambio climatico?
“Iniziamo dal fatto che dobbiamo fermare immediatamente il consumo di suolo. Ogni nuova impermeabilizzazione aumenta di 5-6 volte almeno la quantità di acqua che rimane in superficie dopo una pioggia di media intensità. Se continuiamo a urbanizzare, la quantità d’acqua circolante sul territorio aumenta e con essa la forza d’urto con la quale si abbatte su tutto. Altra cosa da fare è tenere puliti da detriti i corpi idrici superficiali e la rete fognaria. Poi tornare a dare libertà ai fiumi laddove è subito possibile. Li abbiamo spesso imbrigliati, canalizzati, ridotti in sezione perché si voleva ‘guadagnare’ terreno per altri usi. E invece vanno rispettati”.
Ci sono delle soluzioni da suggerire per il breve periodo?
“Nell’immediato serve fermare il consumo di suolo. Ovunque. Recuperiamo gli edifici esistenti ma non utilizzati anziché continuare a cementificare. Nel breve (brevissimo) occorre depavimentare, ovvero togliere asfalto ovunque si può e pure dove non si può. Siamo condizionati da una sottocultura per la quale ci occupiamo più di mettere piccoli cerotti su grandi ferite quando invece c’è da prevenire. I dati Istat ci dicono che per ogni euro speso in difesa del suolo i comuni ne spendono 44 in strade, 6,2 in turismo, 13 nell’anagrafe e uffici elettorali. È evidente che con queste proporzioni non vai da nessuna parte oggi, nel mezzo del disastro climatico”.