
Aveva 86 anni. Seguì la Nazionale di calcio dal 1986 al 2002 e non potè mai celebrare un trionfo. Preparatissimo, le sue espressioni sono entrate nell’uso comune, come "Tutto molto bello".
Ora che il grande gigante gentile si è sdraiato, restano solo i nani. Nel giorno dell’addio la figura di Bruno Pizzul fa ancora ombra, troppo più...tutto degli altri, e per distacco. Non è arrivato a compiere 87 anni per pochi giorni (Udine, 8 marzo 1938), si è spento all’ospedale di Gorizia portando con sé un mondo che va ben oltre i meriti professionali, la statura del telecronista, la rilevanza degli eventi che ha avuto occasione e capacità di commentare in una bellissima carriera, con prestazioni sempre all’altezza.
Dalla mattinata di ieri, quando si è sparsa la notizia, siamo tutti a ricordare giustamente i suoi racconti delle notti magiche al mondiale italiano del ’90, della finale del ’94 persa ai rigori contro il Brasile, le altre delusioni del 1998 e del 2002, ma il vero ’capolavoro’ professionale fu la gestione di una diretta che non avrebbe mai voluto vivere. Quella della tragedia dello stadio Heysel nel 1985, finale Juventus-Liverpool, 39 morti l’unico numero degno di essere ricordato, lui al suo posto a fare il suo dovere da buon alpino, ma con la giusta premessa: "Giocare è inaccettabile, commenterò in modo asettico".
Pizzul era un uomo di un altro millennio, nel vero senso dalla parola. Per competenza, preparazione, stile, linguaggio e per un’altra parola che scriveremo più avanti. Competente perché, a differenza di molti colleghi, aveva giocato a calcio a buonissimo livello, affrontando con la maglia del Catania anche la Juve e Omar Sivori (c’è una foto bellissima che li ritrae insieme), prima di fermarsi per un brutto infortunio al ginocchio.
E aveva studiato, tanto: laureato in Giurisprudenza, entrato in Rai nel 1969 vincendo un concorso nazionale che ai tempi era affrontabile solo se avevi riempito bene il serbatoio della preparazione culturale, debuttò nell’aprile del 1970 con lo spareggio di Coppa Italia tra Juventus e Bologna, fino ad arrivare alle partite dalla nazionale dopo Nando Martellini.
Raccontò l’azzurro nella traversata tra le due sponde felici dei mondiali del 1982 e il 2006, senza poterne toccare mai la gioia della vittoria. Non ha potuto gridare che eravamo campioni del mondo, ma siamo sicuri che non l’avrebbe fatto comunque, di urlare. Ci sembra di sentirlo mentre trova un modo elegante per scandire, con il suo timbro inconfondibile, il momento del tripudio senza mai sbracare.
Al di là della melassa retorica che si scatena in questi casi, in fondo è proprio quello il lascito più bello della persona, prima ancora che del professionista: ha avuto un ruolo che lo ha portato nelle case degli italiani, ma se oggi lo piange gente di tutte le fedi sportive e politiche è perché ha saputo interpretare un sentimento comune riuscendo ad essere sempre popolare, mai volgare.
Non è solo questione di ritmi e volumi audio del racconto, quelli sono figli di tempi diversi e rimpiangere il passato non ha mai avuto il potere di cambiare un presente, nello specifico fatto di urlatori che appunto sono di un altro millennio. No, la parola chiave è stile, quello che ha sempre accompagnato Pizzul nelle sue telecronache come nelle interviste, nel ruolo di ambasciatore dei vini della sua terra come al cinema nel film L’arbitro con Lando Buzzanca.
Stile, e linguaggio: se da ieri si rincorrono le citazioni di alcune sue espressioni diventate di uso comune anche fuori dai bar sport che popolano l’Italia (dal ’tutto molto bello’ a ’ora ha il problema di girarsi’), è perché lui le ha fatte diventare patrimonio di tutti gli italiani, forte di una preparazione che gli permetteva di utilizzare vocaboli anche ricercati senza che fossero mai calati dall’alto. Perché l’ultima parola chiave che manca è umiltà.
E anche qui, quanto ci mancherai, Bruno.