Quando a fine pranzo il cameriere si presentò con un vassoio pieno di astucci blu ben allineati, ci chiedemmo che strano dolce ci stavano servendo. Perché a tavola, ad Arcore, da Berlusconi, le sorprese non erano di casa: a cominciare dal primo, le solite, inconfondibili penne tricolore. Ma quegli astucci? Berlusconi ammiccava ai suoi ospiti, poi si fece serio. Spiegò che quell’anno, il 1999, cadeva il centenario del Milan, e che aveva pensato tra le tante cose di ricordarlo facendo produrre esattamente 100 orologi con lo stemma della squadra nel quadrante. Oggetti preziosi, insomma, unici, se non altro per la tiratura limitata.
In ognuno di quegli astucci blu c’era appunto un orologio commemorativo, e ad ognuno dei commensali ne fu consegnato uno, a prescindere dal tifo personale, ovviamente. Il Presidente ci minacciò pure benevolmente: “Non fate i furbi, in ogni orologio c’è un microchip. Se lo regalate o lo perdete lo vengo a sapere e ve la faccio pagare”. Se la rideva, e persino un paio di interisti dovettero esprimere tutta la loro immensa gratitudine per l’omaggio. Essere uno dei 100: mica poco. Bene, negli anni è capitato di incontrare più gente con l’orologio del centenario che con lo Swatch. Altro che 100. Quanti ne aveva distribuiti? Mille, duemila? Chissà? E a ognuno aveva probabilmente raccontato la storia della tiratura limitata e del microchip. Tutti però, interisti e juventini compresi, si erano sentiti in qualche modo gratificati. Una truffa, un inganno? No, semplicemente un modo simpatico per far sentire importante un ospite, un commensale. O un elettore.
Berlusconi era questo: l’arte del marketing, della simpatia, applicata a ogni gesto della propria vita. A ogni incontro, occasione. Come quando ti rivedeva dopo qualche anno, dopo aver conosciuto altre migliaia di persone, e ti salutava con il tuo nome e ti chiedeva come stava il figliolo che l’ultima volta aveva la scarlattina. Come quando per vendere i primi appartamenti a Milano 2 aveva arredato di tutto punto quelli del primo piano del primo palazzo in modo che la gente non dovesse immaginare come poteva diventare la sua casa, ma la vedeva già fatta. Un aiuto per chi comperava, e una spinta, e che spinta, per lui che vendeva.
Come quando si presentava a fine anno all’assemblea dei giornalisti del Giornale, quello di Montanelli, e ringraziava di far parte di quella bella famiglia a cui aveva comprato casa a due passi dalla Borsa, e che ogni anno gli costava qualche miliardo, perché l’attenzione alle spese non era, diciamo, il primo pensiero di Indro. Come quando si inventò il kit del candidato, un format inedito che poteva nascere solo dalla sua sterminata e legittima presunzione: in base alla quale, a cominciare dalla cravatta, ci si doveva vestire in un certo modo, avere la penna griffata Forza Italia, la pochette tricolore per avere successo in campagna elettorale, per essere la sua squadra. In pratica per prendere voti assomigliando a lui.
Nel vestire e nel parlare. Perché oltre al kit, c’era sempre il manuale sui temi di maggiore attualità. Inutile dire che il manuale in questione era rappresentato dai testi dei suoi discorsi: sul fisco, sulla sanità, sui rapporti internazionali. “Non state ad arrovellarvi su cosa dire su un certo argomento. Imparate a memoria quello che ho detto io e non avrete problemi”. Il candidato annuiva, ma spesso sbuffava perché magari era un professore universitario, un magistrato, gente che pensava di poter avere idee buone e autonome in tante materie. Presuntuosi.
Quando finì quel pranzo e tutti ebbero indossato l’orologio del Milan, si fecero due passi nel parco: lì giocava un figlio, là si nascondeva quell’altra. Un normale padre che racconta la sua normale vita familiare. Verità, finzione? Impossibile distinguere. Più probabile la prima, però. Perché per fingere bisogna sempre essere veri. “Qui Luigi è caduto ieri con il triciclo e si è spezzato un incisivo, proprio qui davanti, spero che lo aggiustino bene, sono preoccupato”. Tranquillo Presidente, è successo anche al mio e ha un sorriso sfolgorante.