Roma, 21 ottobre 2017 - L’8 settembre 1943 come «la morte della Patria». È il pensiero di intellettuali che individuarono nell’Armistizio un tradimento morale. Per molti, rimasti coerenti con un ideale sconfitto, quel giorno andò in frantumi l’idea di nazione. Ferita mai più rimarginata. Sul desiderio rivelato dal direttore di “Qn” direttore di Qn del padre, Franco Cangini, di indossare la camicia nera nella bara, ospitiamo una serie di contributi. Agli articoli di Franco Cardini, Luciano Violante, Marcello Veneziani e Pierluigi Battista, seguiranno quelli di Walter Veltroni, Augusto Barbera, Marco Follini, Francesco Perfetti.
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di PIERLUIGI BATTISTA
Caro direttore, io, negli anni furenti e febbrili successivi al ’68 ho fatto (metaforicamente) a pugni con mio padre fascista. E quando lui è morto nel ’90, due anni dopo il suo grande amico Giorgio Almirante, non ho fatto in tempo a riconciliarmi compiutamente con lui, come ho scritto in un libro che ho voluto pubblicare con un titolo che suona ancora scabroso: “Mio padre era fascista”. Tu chiedi, parlando di tuo padre che era fascista come il mio, che era un grande giornalista ma che era troppo giovane per combattere come avrebbe voluto nella Repubblica Sociale, se sia possibile ricomporre una “frattura” che ha spaccato l’Italia dopo la guerra civile. Adesso è possibile chiamarla così, "guerra civile", perché fino a pochi anni fa questa espressione era infetta, bollata come pericolosa, un modo obliquo per equiparare torti e ragioni. Oggi quel tabù è stato infranto, il tempo non passa invano. Ma la “frattura”, se anche non produce i suoi effetti più dolorosi, non è stata rimarginata con un’operazione di verità e di riflessione, ma per dimenticanza, per indifferenza, per esaurimento. Oggi lo scontro ideologico del Novecento appassiona solo esigue minoranze, la maggioranza è decisamente “post”, non va alle manifestazioni del 25 aprile, non legge gli articoli che riguardano le nuove leggi sull’apologia del fascismo. I nostri padri, caro direttore, sono rimasti inchiodati nel ruolo di “vinti", messi in un recinto per decenni dalla retorica dei vincitori, hanno sofferto per scelte ideali che oggi, lo dico con tristezza pensando a loro, non hanno più, come dire, "risonanza" emotiva in chi è sotto una certa soglia di età e non ha fatto in tempo nemmeno a vedere il muro di Berlino. C’è un'espressione che non mi piace affatto: memoria condivisa. No, la memoria non può essere condivisa con un intervento chirurgico. Le memorie restano divise, devono restare divise. Ma la civiltà di una Nazione si misura sulla capacità di comprendere le memorie diverse dentro una storia comune, questa sì. Una storia in cui i vinti non siano demonizzati, ma compresi nelle loro ragioni. Questo non significa smettere di giudicare, equiparare, non saper riconoscere torti e ragioni, significa però capire perché tanti italiani hanno creduto in qualcosa che possiamo considerare inaccettabile ma che pure non può essere espunto, come invece è stato fatto, dalla storia nazionale. Questa è la vera “frattura” che dovremmo essere capaci di ricomporre. Ma dubito che ne saremo capaci.